mercoledì 13 dicembre 2017

Eredità di un poeta



di Enzo Barone

Troppo poco è durata questa nostra gioventù,
ecco ora è svanita, come brina al primo sole;
Troppo corta: un rabbioso tiro di corda alla trottola sghemba
e già il suo volteggio si fa orbita imperfetta.
Andrò da solo adesso,
nella notte,
vastità di scuro senza fondo
senza i piccoli tuoi doni
né stringhe alle mie scarpe.


Ti conobbi una mattina di marzo:
eri un estroso fanciullo con la barba,
un curioso elfo caduto un giorno nel dissesto di questa città,
tra lo sgommare delle alfette e i riti di espiazione collettivi di quegli sporchi anni ottanta,
Ci volemmo subito bene:
eravamo due povere anime vagamente in cerca di un senso,
di un bene,
che fosse di tutti.

Coltivammo bene la nostra amicizia,
mentre la giovinezza si spandeva a fiotti
nelle confortevoli tenebre dell’incoscienza
negli anni della luce buona,
quando il pino sapeva di resina e il ponente di abbracci, ancora.
Si parlava allora, si diceva insieme felicemente
di come la poesia, le belle idee, il nostro riso
il misterioso viso delle donne, - che speravamo propizio, un giorno -
ci avrebbero di certo ottenuto quel po' di vita
da cui nessuno avrebbe meritato d’essere escluso.
Ma forse ero io, io solo, l’ingenuo, l’idealista;
tu sempre annuivi sorridendo
ma eri già un tenerissimo disilluso,
compativi pietoso il mio entusiasmo,
con l’amore del saggio rassegnato
come un feroce consolatore,
un amorevole fatalista,
innocente e puro,
già prendevi a piccole dosi il veleno di ciò che sarebbe stato.

Si diventò grandi;
avesti, avemmo amori
con alterne fortune,
donne volute
trovate,
abbandonate,
lasciti disuguali nell’eredità del cuore,
come ciascuno.
Poi fu Laura
E fu la vita,
e il tuo silenzio,
il tutto in cui farsi insignificanza,
e scomparire grato.
E anche per questo forse
il suo incomprensibile dover partire
tanto ti annichilì;
perché fosti costretto a ritornare un te stesso fuori dal bene,
un essere individuale, una solitudine,
un brandello di carne e di pena
di questo mondo,
di questo orrore.

Ora mi lasci
erede della tua vecchiaia,
dio maligno di cui scrutavi, non visto, l’empietà.
Io resto ancora un po',
a dividere i fogli bianchi e profumati
da quelli opachi e rattrappiti,
le malombre dalle schiarite,
le giornate di sole e il nuvolare d’occidente.
Resto col tempo mio scialbo che sopravanza
e la strada e i marciapiedi rotti e i versi nudi e spenti
di qualche scontroso poeta dal verso sciatto e inconciliabile,
non i tuoi puri e versatili, luminosi e desolati,
fertili e umani, giocosi e spietati.

Passo a prenderti a casa, come sempre:
a fra poco quindi,
saggio fanciullo dalla voce trotterellante
viandante perduto dai jeans cascanti
camicia demodè e giacche troppo larghe
tenero fuori luogo della nostra fottuta borghesia,
buffo personaggio delle fiabe buone,
magari uno starec di Dostojeski o l’enigmatico profeta di Quinzio,
oppure candido Gurdulù,
e innocente Pin dei romanzi di Calvino.

Pregheremo per te
e tu prega per noi,
così semplicemente
da stare forse un poco insieme ogni tanto
in qualche modo
in qualche posto





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