lunedì 23 gennaio 2017

Fuori dai denti


 

Genius

 

di Daniela Palumbo

Una sola parola, un nome soltanto: Genius.
Il titolo rimanda subito a storie precedenti di uomini fuori dal comune, personaggi "eccezionali" che si distinguono per qualcosa che li rende particolari, e diversi: la genialità appunto.
E dove potrebbe risiedere, questa, se non nella testa, in quella "beautiful mind" - già oggetto di altra rappresentazione cinematografica - tanto dotata quanto inquieta, nel capo che sovrasta e regge le membra, e dirige le azioni che ne conseguono, e gestisce l'effetto di tali azioni su di sé, e sugli altri...
Nel cappello, forse.


Il cappello fa il suo ingresso da subito, nel fim, insieme al suo personaggio; così come il cappello, sempre lui, fa da ultimo sipario.
E il personaggio - dotato di inseparabile cappello, appunto - in questa storia "vera", è un editore; lo stesso che pubblicò Hemingway, e Fitzgerald, e che scoprì il talento nuovo di Thomas Wolf scrittore.
Potrebbe sembrare lui, lo scrittore - come ci si aspetterebbe, di norma - il genio della situazione, o della storia; l'uomo da cui si vedono sgorgare, in modo inarrestabile, non solo parole, e moti dell'animo, ma anche sentimenti e istinti primordiali, che vanno dal narcisismo al dispotismo infantile, dall'adorazione di sé - che dovrebbe quanto meno renderlo "autosufficiente" - alla dipendenza da colui che incarna il suo unico interlocutore. Proprio lui: l'editore, prima ancora che il lettore, e il "padre" prima ancora che l'amico.
Ma questo "padre" - ci si domanda - questo editore pronto a "investire" su di lui- l'istrionico, egoista, esibizionista autore, costantemente  "sopra le righe" - quest'uomo "controllato e parco", determinato e inesorabile nel "tagliare" pezzi di romanzo - parole, frasi, periodi, interi capitoli - con la furia contenuta ed asettica del chirurgo in sala operatoria, sarà capace, alla fine, di recidere con altrettanta efficacia un cordone ombelicale, sebbene fittizio (o "ideale", se si preferisce) con l'unico "figlio maschio" della propria vita (sin dalle prime scene lo vediamo circondato dalle sue bambine, all'interno della propria dimora, dove egli si aggira, e risiede, sempre col cappello sulla testa)?
Sarà capace, questo eroe dell'ordinario e dello straordinario, di dare vita a qualcosa che possa camminare coi propri piedi, reggersi sulle proprie gambe, essere se stesso - unico e speciale - "davvero"?
Si può riuscire, essere "capaci", di dare alla luce qualcosa - anche qualcosa di "geniale" - senza avere la pretesa, o la presunzione, di "averla creata"? Di guidarla nella sua gestazione senza cambiarne il senso - o l'essenza - senza essere  (o credersi) dèi o demiurghi?
Forse sì, alla fine di un cammino, forse di fronte alla traccia concreta di un "figlio" realmente  diverso da noi, e che proprio per questo si rivela come lo volevamo, o come il mondo lo voleva, senza conoscerlo ancora...Forse, mettendo giù il cappello.

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