giovedì 18 agosto 2016

Goodbye, mister Freud



di Enzo Barone

Allora dunque aspetti un po’ che mi sistemi meglio e, impiegando tutto il tempo che mi è necessario, come sempre lei mi invita a fare, cerchi perfettamente supino la posizione migliore. Mi piace un mondo carezzare alla mia destra le natiche scoperte del bronzetto della Venere dei Medici; lo faccio ormai liberamente e con completa disinvoltura, come lei mi disse quel giorno che varcai per la prima volta la soglia di questo studio, dottore. Sono a mio agio adesso, disteso, tranquillo, rilassato che meglio non potrei. Chiudo gli occhi.

Ora vedo tutto con la giusta distanza, dall’alto di una coscienza sempre più lontana dalle ansie, dalle passioni, ora vedo anche il suo studio come da sopra, da un altro mondo. Ecco: faccio il vuoto attorno al sogno. Si, proietto un unico, preciso cono di luce che fenda il buio e cerco il sogno al suo interno. Esiste solo lui. Sullo sfondo nero c’è solo lui ed io lo illumino con il potente faro del mio ricordo.
Eccoci dottore, adesso ci sono dentro. Mi pare che le immagini da vaghe e nebulose vadano a fuoco piano piano fino a che non diventino magari non del tutto nitide, ma si aggreghino in forme riconoscibili, plausibili almeno.
Mi trovo in una strada stretta, un po’buia, una stradetta insomma, con il selciato fatto di grossi e ruvidi cubetti di porfido multicolore. E’ in salita la strada, e un po’ curva e non ne comprendo il termine, dottore.
Adesso esco da un portoncino di legno verniciato in verde e scendo tre, quattro o cinque gradini, di numero impari ai due estremi perché si adeguano alla pendenza della via in salita. Ma poi i gradini man mano che scendo aumentano e aumentano sempre di più e la discesa diventa interminabile. Lo trovo però logico e razionale. La strada è sì angusta, ma in realtà è divorata per la gran parte da edifici con vecchi mattoni rossi con in basso portici profondi e ombrosi, sostenuti da archi tondeggianti e colonne antiche lisce, sormontate da capitelli medioevali. Sono palazzine vetuste, vecchie di secoli, dicevo, ma tra di esse si c’è pure qualcosa di moderno in nudo cemento, mattonelle e vetri, di quelle abitazioni che deturpano ahimè tante nostre città. Cammino e mi giro. Mi pare adesso che la via sia più stretta di come l’abbia rappresentata nella mia mente dapprincipio. Pur conservando l’ambizione, la presunzione quasi, di strada benché non grande, ora si mostra qual è: un vicolo ecco, fagocitato dai portici e dalle case, un vicolo che si traveste da strada.
Il buio, mi accorgo, viene da quei vortici d’oscurità che sono i portici che ora, se guardo bene, appaiono smisuratamente ampli davanti alle case silenziose. Non so che tempo farà; non so se pioverà tra poco. Ad ogni buon conto non mi bagnerò perché la strada è interamente coperta sopra da lastroni di vetro che la proteggono per tutto il suo andamento. C’è della gente che la percorre, esce ed entra da case e botteghe, si dà da fare; tutti come le figurette di metallo di un cucù svizzero, in sincronia e senza anima: se uno esce da una casa altri due entrano; se uno si china, una donna col grembiulone e il fazzoletto al collo contemporaneamente alza le braccia al cielo. Poi all’improvviso non c’è più nessuno in giro: sono tutti spariti e so perché. Per farmi sentire terribilmente solo, unico coi miei desideri, io con la città che ho messo su e mi appartiene. Adesso sono in cima alla strada, mi siedo su uno dei gradini molto larghi ad invito convesso di una ineffabile casa, con la facciata ricoperta di lustri marmi chiari e mattoncini rosso vivo e solo allora mi accorgo di avere con me alcuni oggetti di vario genere che mi riempiono le mani, di cui presto mi libero deponendoli per terra. Mi pare di veder un mazzo di voluminose chiavi, un vecchio ingombrante cellulare, una strana tavoletta rettangolare con su un lato breve una calamita o l’arco di un grosso lucchetto grigio, un parallelepipedo di ferro, un libro forse. Tutti oggetti fastidiosi a portare, pesanti, che – è assurdo, no, dottore? -  ho trasportato un po’ in tasca, un po’ tenendoli goffamente tra le mie mani.
Torno all’inizio della via davanti a quel primo portoncino. So adesso che la casa che esso chiude l’ho abitata per qualche anno doloroso, mi ci sono incarnito dentro di sofferenza. Mi viene ora in mente di esserne uscito, aver chiuso la porta un sacco di tempo addietro con quelle pesanti chiavi, per lasciarmi alle spalle alcune amarezze, di avere, ecco, di avere litigato, con qualcuno al suo interno, il padrone mi pare, per questioni che non ricordo o forse solo per una sua pregiudiziale inimicizia. Mi tormenta, mi perseguita e opprime, il ricordo. Forse costui lo conosco da tempo: è qualcuno che mi fa del bene, sento di dovergli qualcosa, pur troppo, per avermi aiutato per un guaio, a lungo, credo. Detesto l’essergli stato obbligato, la prosopopea con cui mi ha elargito il suo aiuto. Il dovermi sentire costretto a dovergli dei grazie, della riconoscenza. E’ un obbligo viziato dal rancore questo, che mi vincola e che detesto. Sento giusto adesso l’onda calda, lo scirocco opprimente dell’odio. So, lo do per certo, che anche lui mi ha aiutato per umiliarmi, per farmi sentire esattamente come mi sento e che nel profondo mi disprezza anche lui, più di me. Cerco allora le chiavi per entrare forse, ma non riesco a trattenere tutto ciò che ho in mano. E allora vanno per terra molti degli oggetti che mi porto appreso e rendono ingombro il mio passo.
Cerco di raccoglierli e me ne cade sempre uno; li ho tutti tra le mie braccia e ne spunta ancora un altro che non avevo visto. Le chiavi, però le chiavi non le vedo: sento la necessità di averle per aprire, una porta, che pensavo ormai di aver dimenticato. E in quel mentre la porta si apre e mi ingoia dentro in un andito buio, in un anticamera, in un corridoio umido e poi vengo aspirato in su, in su e in alto nella casa. Attraverso come mangiato da un ciclone sale e saloni dipinti, cucine, tinelli e un andirivieni di camere, soggiorni assetati di luce, soffitte costipate e bassi mezzanini e infine senza capirlo mi trovo catapultato tra le braccia di una femmina. Ha indosso un vestitino corto bianco da infermiera, tacchi alti e lunghi capelli. E’ rotonda e morbida di seni sodi e fianchi e cosce piene e rotonde. Mi stringe a se, ma non mi mostra il viso. La voglio. Il mio senso mascolino più primitivo la vuole, vuole la copula. Poi mi mostra il viso, ma è una vecchia strega con rughe come crepacci e labbra smorte e secche da impareggiabile megera. Strepita che desidera farmi suo, muggisce voglie bestiali. Io cerco di divincolarmi, ma la sua forza mi tiene avvinto e mi sovrasta. Ora mi toglie la camicia, sbottona la patta, fruga, e prende volgarmente, senza ritegno. Non voglio, non voglio che il mio desiderio di prima si muti in una miserabile beffa, in una nemesi, mi sia schifosamente sbattuto in faccia come contrappasso. Faccio allora appello a tutte le mie disperate forze; trovo da qualche parte un bastone, no una forbice o forse un punteruolo e la colpisco e colpisco fino a stancarmi, con la santa ragione di chi deve sopravvivere. Ecco sono libero, dottore: mi divincolo e scappo; non avverto pentimento, ma la gioia del giusto contraccambio, della punizione meritata. Riattraverso le infinite stanze ed è uno scivolare di spazi, un precipitare di direzioni, un dissolversi continuo del loro essere esistite, un tramutare di forme e di aspetto via via che le attraverso. Giungo al fine nella saletta dell’ingresso. So di essere ormai fuori, ma la distanza così breve tra me e quella porta, tra me e la maniglia mi angoscia; l’incolmabile, indicibile distanza che separa il dover agire e il non saper perché dover agire.

Poi all’insaputa e all’improvviso vengo meno e crollo per terra in un abbandono dolce e totale che mi priva del tutto da ogni peso.
E ora dottore eccomi qua lungo supino, sulla poltroncina di pelle nera del suo studio a chiedermi e a chiederle, con l’intenzione forse se non proprio con la bocca, che senso dare, che diavolo mai vorrà dire insomma questo mio sogno da ubriaco. E soprattutto le domando, se non è troppo disturbo, come mai vedo dall’alto il suo bel parquet castagno sporcato dal mio cervello sparso qua e là come una pappetta molle in mezzo a tanto sangue e inoltre perché, vedo a testa sotto la Venere che tanto amo, che lei brandisce nella presa vigorosa della sua mano?

 
 

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