mercoledì 2 marzo 2016

Don Quijote a Palermo


di Enzo Barone

 
Ammettiamolo serenamente: chi di noi (soprattutto tra gli over quaranta) non ha pensato ad un certo punto, almeno una volta, che vivere a Palermo è una sfida, una provocazione disperata, una scommessa con sé stessi, una malattia. Che solo l’insania di un amore sviscerato (e per questo ancora più assoluto) e alcuni suoi doni inimmaginabili  possono giustificare, rendere comprensibile. Come quello per una donna bellissima e perduta che ti condanni ad amare fino alla tua (ed alla sua) fine.


Sei in un giorno qualunque di ordinaria dissennatezza: ecco ad esempio ti intruppi in una civile fila in via La Malfa, dietro ad alcune pazienti auto in attesa di imboccare ad una ad una uno stretto sotto passaggio per svoltare. Le macchine da principio non sono nemmeno troppe e la civile fila regge per un po’. Ti chiedi se ancora stavolta sarà come sempre; ti illudi magari.  E invece capita ogni volta. Ce ne sono alcune, mai troppo poche, che si accostano, ti sopravanzano piano piano, eludendo la tua disciplinata attesa in fila. Butti l’occhio e c’è sempre lui (ma anche lei): il braccio appoggiato sul finestrino aperto, lo sguardo placido, innocente, perso nell’orizzonte beato della strafottenza, della serena e indifferente vita del maleducato. Sembrerebbe la persona più indolentemente pacifica del mondo. Poi nel momento fatidico, con scaltrissima arte dissimulatoria, ecco che l’incivile manifesta il suo vero volto, esercita il suo diritto, impiega il suo indiscusso talento predatorio: ti supera, ti frega, passandoti davanti ed avviandosi prima di te verso lo stretto passaggio. Come se dovesse per forza andare così, come se questo fosse un suo sacro diritto, acquisito, legittimato dalla incombenza, consacrato dalla stessa furbizia del gesto, come se lo stesso numero di tutti quelli che in quel momento eludono le regole automaticamente sanasse il dolo. Tutto sembra quasi giustificabile dalla semplice ineludibilità della contingenza del gesto. Sono qua ormai: che dovrei fare? tornare indietro? Vuoi scherzare, passo!
Così, si sa, ogni giorno: in auto, al bar, in fila ad uno sportello, sull’autobus, nei parcheggi, sulle strisce pedonali o nelle corsie d’emergenza, benché meno che in passato, sebbene le cose un pò migliorino (con la solerzia dei bradipi). E quando capita di dover soccombere allo scaltro di turno tu, che sai di essere nel giusto, che vorresti farti forte del tuo diritto discendente dalle leggi e dalla affermata universalità della buona educazione, devi ogni volta prendere una decisione, devi scegliere. Protestare civilmente o accettare passivamente? Urlare ed incazzarti o educare pazientemente il tuo prossimo con utopica pedagogia? Oppure? Fare come tutti gli altri. Ma ogni scelta è un errore, una sconfitta, comunque un dissesto morale del tuo io. O più semplicemente una frustrazione.
Talvolta, una due volte l’anno - di più aumenterebbe troppo il rischio di liti dalle conseguenze imprevedibili – scelgo di esercitare il mio buon diritto che discende dalla legalità e decido di smettere l’ignava rassegnazione degli onesti. Allora tiro giù anche io il finestrino, rivolgo con decisione lo sguardo verso l’ineducato, tendendo con calibrato sdegno nella sua direzione il braccio destro col palmo aperto, in un largo e plateale gesto di eloquenza declamatoria, in atto di riprovazione, al quale farò seguire pronta, opportuna espressione di secco e giusto sarcasmo. Ma ecco l’incivile mi sorprende, mi precede e al mio gesto ancora nel suo sviluppo risponde con un sapiente e retorico ruotare del suo destro rivolto all’assembramento caotico di auto per significare: “Che traffico, minchia, vero compà?” Così mi io smonto, si destruttura la mia civilissima rabbia e torno a guidare.
Ora che ci penso è un deja vu, un ritorno di memoria: tante altre volte accade. Anche in altri contesti o situazioni il mio gesto allusivo di sardonica condanna è stato male interpretato. Il mio inurbano (per me) interlocutore in realtà leggeva o cercava in me la condivisione della sofferenza cui tutti a Palermo siamo condannati, oppure una innocua chiamata in una correità non cercata, ma ben trovata  - capisci: agisco così come faresti e hai fatto tu tante altre volte -; insomma la furbata, l’inciviltà come indispensabile, innocuo  viatico per sopravvivere qui da noi, come tutti, o i più almeno. Molto semplicemente ancora una volta mi capita, devo ammetterlo, di essere sorpreso nel costatare la purissima, santa ignoranza della colpa e del male degli incivili. Lo sguardo rassegnato e di candida innocenza del vicino di fila, del automobilista che ti ruba il posto con destrezza o del cittadino che si avvantaggia iniquamente a tuo danno è sempre questo. Sono quasi sempre nella pace di chi non conosce l’errore. Non potrebbero mai sognare, immaginare di potere essere additati e riprovati per qualcosa la cui colpevolezza gli è spesso del tutto ignota? Insomma la colpa esiste solo come consapevolezza della sua esistenza e del suo compimento, mi verrebbe da dire.
Così alla fine ti risolvi a proseguire verso casa un po’ stordito, preso sempre più da uno straniamento esistenziale: è indubbio sei tu fuori dal mondo, sei tu che ragioni male, che non stai alle regole del posto (pur essendoci nato). Probabilmente hai sin da principio sistemato molto male l’alzo del cannone della tua civica riprovazione; devi deciderti a ricalibrare una volta e per tutte il sistema dei valori di riferimento di questa città: non ti sei ancora reso conto che al peggio vivi in una città di incolpevoli anarchici, di candidi selvaggi. Un luogo irredimibilmente non riducibile a parametri europei, semplicemente con altre logiche, altre istintive leggi di sopravvivenza. Forse addirittura potresti alla fine pensare alla maggioranza dei tuoi concittadini come a degli eroici combattenti nella giungla del si salvi chi può, nella frontiera dei senza legge. Non è possibile - convincitene una volta per tutte - pensare a come dovrebbe essere questa tua adorata città, col corso previsto e regolato delle sue norme condivise, con le sue ordinate prassi di convivenza, con la civile neutralizzazione sociale degli impulsi e dei tornaconto individualisti. In fondo la realtà, questa, così com’è, giustifica se stessa da sola e dà sic e simpliciter senso alla propria fenomenologia. Si dà un’etica e una logica da sola, inevitabilmente. E tanto basta.
Palermo è un inferno? Ma l’inferno esiste solo per chi ci crede e ne ha paura, diceva genialmente De Andrè. E non era neppure di Palermo.

1 commento:

  1. Palermo è un inferno. Oppure è un mondo parallelo all'inferno, come la follia è uno stato parallelo alla lucidità, con una logica tutta sua, regole proprie, anzi totale assenza di regole; un caos che si pone non come preludio a un ordine nuovo, più buono e più giusto, ma come caos fine a se stesso. Con una sua bellezza, tuttavia, con un suo fascino: quello del "genio" e della sregolatezza. Bravo Enzo per l'analisi attenta e lucidissima.

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