domenica 2 agosto 2015

Moralia 5


di Enzo Barone

L’altra sera c’era, un vecchia pellicola western degli anni ‘40, “Duello al sole” mi pare si chiamasse. Si trattava di un drammone metà sentimentale, metà classico western d’azione, ma presto il film, o almeno alcuni suoi nuclei tematici dello script, sono diventati per me motivo di riflessione paradigmatica, soccorso in questa operazione dal fatto che quasi in ogni film americani di quell’epoca ad ogni passaggio narrativo significativo si può sovrapporre un elemento sociologico-simbolico nella logica dell’impianto a tesi.
C’è un ricco ed influente allevatore in un grande ranch del Texas. Ed una donna, una bella donna dalla fattezze latine, una trovatella adottata dalla sua famiglia (a testimoniare il senso di cristiana carità di quei ricchi coloni bianchi). I due figli di quella famiglia sono due bei tipi (impersonati da due sex-symbol del cinema di quei tempi, come Gregory Peck e Joseph Cotten), innamorati in modo diverso della bella orfana messicana. Tutto insomma sembrerebbe filare liscio in quell’Eden di rettitudine morale, se non fosse che il più scapestrato dei figli (Gregory Peck), dopo una serie telenovelistica di eventi, imbastisce una relazione con la donna, la quale gli strappa anche la promessa di sposarla. Mentre su un altro fronte tematico ad un certo punto l’immenso feudo del proprietario terriero viene minacciato dall’arrivo della ferrovia, il che comporterebbe l’espropriazione di una parte della proprietà e la violazione della sua integrità (alias l’arrivo del progresso, ma anche l’invadenza degli interessi collettivistici dello Stato). Il gran capo, un vecchio senatore, (l’incarnazione dei valori conservatori della frontiera americana, della moralità, della proprietà privata e della sua tutela ad oltranza contro tutto e tutti) allora rivela tutta la sua natura reazionaria, minacciando con le armi, in difesa della sacra terra, persino gli incolpevoli operai della strada ferrata e intimando poi al rampollo scavezzacollo, di rientrare nei ranghi, dopo essersi  divertito: che non si sogni nemmeno di pensare alle nozze con una bastarda messicana (il richiamo all’omogeneità etnica e sociale della famiglia e alla sua difesa, peraltro condiviso dallo stesso figlio).

Insomma tra i vari spunti di riflessione ecco un semplicissimo apologo sulla brutalità del razzismo in generale, quello che esclude le persone e quello di tipo, diremmo, territoriale, a difesa dei propri beni, contro i quali il regista conduce per mano lo spettatore dell’America postbellica in modo chiaro e graduale, come il papà con il figlio ancora piccolo. Certo noi spettatori del 2015, comunemente progressisti, mediamente colti e disincantati, veniamo percorsi da un lievissimo piacevole brivido di compiacente sufficienza, di bonaria e rassicurante superiorità per essere stati introdotti allo svolgimento di una tesi tanto banale, alla proposizione e riaffermazione della denuncia di un razzismo tanto elementare quanto scoperto e riprovevole. Temi proposti in modo tanto ingenuo e in termini così didascalici, come le raccomandazioni di una vecchia zia, sempre uguali sin dall’infanzia.
Poi però, proprio mentre accompagniamo il film alla sua tesi conclusiva, col sorriso condiscendente dell’adulto verso l’ingenua e serissima professione di un principio da parte di un bambino, qualcuno di noi (io ad esempio) affila il rovello di un’analisi più invasiva. O meglio di un’autoanalisi. Siamo certi di essere del tutto e in ogni caso immuni da ogni tipo di “razzismo”?
Voglio dire oggi la maggior parte di noi spettatori progressisti civilissimi europei (e politicamente corretti), colti e ben formati, ritiene, a buon diritto e con una certa sicurezza, di essere estraneo ad ogni forma di esclusione, di discriminazione a sfondo etnico, antropologico. Certamente rifiutiamo l’idea di non far sposare a nostro figlio una donna, unicamente perché di condizione economica e sociale inferiore alla nostra. O perché appartenente ad una cultura o ad una religione diversa o proveniente da una zona geografica lontana. Qualche difficoltà, anche rognosa da superare, ma la nostra etica ci direbbe che sono superabili in nome di valori superiori. E sull’altro tema, chi di noi benpensanti evoluti e civili penserebbe di opporsi veramente alla costruzione sui nostri vasti possedimenti di una strada di pubblica utilità, soprattutto per una questione di integrità territoriale violata?
E allora procedo ancora, scavando più a fondo in una autopsia etica di me stesso, facendomi un’altra domanda. Io qualora ne fossi stato seriamente innamorato, avrei accettato di vivere per tutta la vita ad esempio con una donna, se non di un’altra razza o di un’altra condizione economica, religiosa, magari di un livello culturale completamente diverso dal mio? Credo proprio di no. Ecco forse in me esiste un certo tipo di discriminazione culturale. E il mio è vero’ razzismo o buon senso nel saper escludere la persona meno consona per una esistenza il più possibile felice? Non lo so, ma in ogni caso l’esclusione di una categoria antropologica dal mio orizzonte, confesso, rimarrebbe tutta là, immutata. E forse tornando all’altro argomento, se è vero che accetterei (forse obtorto collo) l’invasione della mia vasta proprietà da parte di una via di pubblica utilità, farei certo l’inferno per difendere il mio modesto appezzamento di terreno da una inutile superstrada che violasse di colpo un caro e intimo diritto al possesso di un bene. C’è sempre in fondo un elemento che ci divide e distingua da una certa categoria di persone o situazioni e le pone immediatamente nella condizione di diverse da noi, quindi necessariamente in condizione di minorità oppure che ci pone ferocemente alla difesa del nostro a discapito di tutto il resto del mondo.
La coscienza sociale moderna nella sua gran parte, e con molte preoccupanti eccezioni, si è allontanata (purtroppo anche a forza di esempi multipli di genocidi) dalla forma di razzismo più odiosa e gratuita, quella puramente etnica. Ma tanti altri colti, aperti, benpensanti incappano in quello sociale, economico o territoriale o qualcuno, come me, in quello culturale, in quelli comportamentali o di genere, o magari (la metto sullo scherzo, ma non troppo) sportivi (chessò io, una fiorentina convinta non sposerebbe mai uno della Juve!), in quelli familiari, in quelli addirittura igienico-sanitari. E’ così che funzionano le cose, ammettiamolo. Pochissimi riescono davvero a considerare gli uomini tutti uguali tra di loro nella dignità.

La nostra civiltà, quella occidentale per lo meno, almeno dall’avvento del neolitico in poi, si fonda in buona misura sulla esclusione, sui distinguo, sulla differenziazione, sui razzismi. E il motivo di fondo sta proprio nell’altro nucleo narrativo del film, – forse il più importante – che non casualmente si incrocia e illumina di senso l’altro sulla discriminazione verso la messicana orfanella. 
La difesa della terra. L’avvento della territorialità stanziale nella storia dell’uomo. La necessità divenuta imprescindibile di dire: fino a quell’albero, pietra, fiume, steccato, filo spinato è mio e quello che sta fuori è altro da me, diverso da me, anzi mio nemico. Questo, senza scomodare l’armamentario dell’ideologia marxista, è il lievito madre di ogni tipo di razzismo, di quelli che hanno una loro assurda logica (la territorialità), e di quelli stupidi e aberranti di carattere etnico. In parole povere un primitivo egoismo genera altri diffusi egoismi ed esclusioni di ogni genere. Le società nomadi, - purtroppo i pochi superstiti nomadi oggi esistenti in Occidente vengono costretti sempre più alla stanzialità dai molti sedentari -  benchè imperfette e spesso violente anche loro, non hanno maturato queste strutture di pensiero perverse, basate sull’esclusione: non ne hanno avuto la necessità.
E’ bene pensarci su, ciascuno per suo conto, in tempi di esodi di “clandestini” e di invasioni di “extracomunitari”.

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