sabato 22 febbraio 2014

Le guerre che il mondo dimentica


di Valentina Sechi

Homo homini lupus diceva il filosofo inglese Thomas Hobbes, l’uomo è un lupo per gli altri uomini e quindi nemico. Dalla notte dei tempi l’uomo ha combattuto i suoi simili per invidia, rivalsa, potere. Nonostante secoli e secoli di lotte non abbiano portato altro che morte e distruzione, la situazione non è cambiata. Stretti dalla morsa della crisi economica mondiale e preoccupati per l’incessante arrivo di immigrati clandestini dal Maghreb, ignoriamo che attualmente circa 60 Stati sono belligeranti in 4 continenti. Ci sono guerre destinate ad essere consegnate alla storia. Ma ci sono anche guerre di cui nessuno parla mai, guerre silenziose che si consumano giorno dopo giorno, guerre non meno cruente o meno degne di attenzione perché la guerra è sempre tragica e porta un carico di morte e distruzione notevole.      
 Descrivere con dovizia di particolari ciascuno dei conflitti, analizzandone le cause prevedendone l’evoluzione è impossibile. Si potrebbe invece ricordare qualche caso per dimostrare che si tratta di un fenomeno universale, senza razza e senza colore che non conosce altra lingua se non quella dell’odio. Proprio a questo si deve la scelta di tre casi: Yemen, Daghestan e Sud Sudan.Lo Yemen è un Paese musulmano situato nella parte meridionale della Penisola arabica. Il conflitto che lo caratterizza è tra il Congresso generale del popolo (unico partito) e il ramo locale dei fratelli musulmani (organizzazione islamista) che rappresentano rispettivamente una dittatura laica e uno Stato più islamico.                          

Da gennaio 2011, i venti di rivolta della primavera araba sono giunti anche qui. Per sedare le rivolte la polizia ha sparato sui manifestanti e, nonostante il governo si dichiari estraneo, ciò ha portato alla deposizione del dittatore Ali Abdullah Saleh, al governo dal 1978. Si è dunque aperto un periodo di instabilità in cui i leader dei gruppi etnici hanno rafforzato il proprio potere portando il Paese sull’orlo del collasso.                                                                                                                                                                                   In virtù della posizione geostrategica del Paese, i servizi segreti dei Paesi occidentali lavorano senza tregua ma privi di una pianificazione strategica. Le cause reali del conflitto sarebbero di tipo economico infatti poiché solo l’1% della superficie totale è irrigabile, l’82% del cibo viene importato; inoltre l’economia interna si è rivelata troppo debole rispetto all’aumento della popolazione. La vera ricchezza è il petrolio che costituisce il 90% delle esportazioni totali. Dai suoi ricavi si ottiene dunque il denaro per cibo, spesa pubblica e infrastrutture. Tuttavia, per ragioni naturali e a causa degli scarsi investimenti alla ricerca di nuovi pozzi da trivellare si verifica un aumento del consumo interno e dunque una riduzione della quantità da esportare a vantaggio dei gruppi tribali i cui leader si sostituiscono ad un governo virtualmente in bancarotta. Se una guerra vera e propria non si è ancora verificata, ciò si deve unicamente al flusso di denaro devoluto dalle monarchie limitrofe preoccupate del possibile estendersi del contagio rivoluzionario.

Nemmeno il Vecchio continente è indenne dall’epidemia bellica che infetta il pianeta. L’area tra Caucaso settentrionale, Cecenia e Dagestan (una repubblica della Federazione Russa del Caucaso) è caratterizzata dal” più sanguinoso conflitto esistente in Europa.”                                                                                                      
La vicina Russia ha inizialmente patrocinato iniziative per promuovere lo sviluppo della regione.  Il principale gruppo terroristico locale, the Caucasus Emirate, ha sabotato tali attività. Ispirandosi al radicalismo wahabita (che propugna il ritorno alla purezza dell’Islam) e alla jihad, i gruppi secessionisti esprimono il loro disappunto nei confronti della politica filo-moscovita con attentati e omicidi trovando consenso nei giovani angustiati da povertà, assenza di prospettive, nepotismo e corruzione politica. Gli attivisti per il rispetto dei diritti umani denunciano la deportazione dei presunti militanti e la detenzione senza prove.                                                                                                                                                                   Frange estremiste hanno preso parte al conflitto siriano facendo temere, finita la guerra civile, azioni da parte di guerriglieri esperti che mirerebbero a destabilizzare l’autorità centrale. A preoccupare Mosca è soprattutto il gruppo di proseliti intorno a Doku Umarov, leader dell’Emirato del Caucaso che vorrebbe creare uno stato islamico nella regione e la triade Margoshvili, Machaliashvili e Musa (con il primo leader). Il Presidente ceceno Kadyrov teme il ritorno dei combattenti in Siria per il loro radicalismo islamico e ha affermato che a seguito della cattura saranno puniti secondo la legge siriana.

In ultimo si consideri il più martoriato dei continenti l’Africa, che conta 24 conflitti in corso, e in particolare uno dei più sanguinosi: quello che coinvolge il Sud Sudan.

Il Sud Sudan è lo Stato più giovane del mondo: nasce nel 2011 a seguito di un referendum per la separazione del Sudan. In esso si trova il 75% delle risorse petrolifere del Paese ma per commercializzarlo è necessario utilizzare gli oleodotti situati nella parte settentrionale. La capitale sudanese Khartoum ha richiesto dazi elevati, causando scontri tali da portare alla sospensione dell’attività petrolifera per un anno. Nonostante accordi successivi abbiamo contribuito a sbloccare la situazione, la crisi economica è divenuta politica a seguito dei dissidi tra il Presidente del Sud Sudan Kiir e il suo ex vice Machar che lo avrebbe accusato il primo di operare atti volti alla pulizia etnica dei Nuer.                                                                                                                                                

Gli scontri del 15 dicembre erano dovuti al tentato golpe dell’esercito Nuer, progettato da Machar e fatto dunque decadere dal Presidente, di etnia dinka, nel luglio 2013. Le vere ragioni di un conflitto che ha causato 1000 morti e oltre 200 mila sfollati sarebbero dunque etniche prima che politiche ed economiche.  I combattimenti sono ripresi malgrado l’accordo per il cessate-il-fuoco del 23 gennaio, soprattutto a Malakal che era stata riconquistata dall’esercito governativo con il supporto delle truppe ugandesi e nuovamente si trova in parte nelle mani dei ribelli. È la popolazione civile a pagare il prezzo più alto: i ribelli distruggono case e villaggi, uomini e donne chiedono l’elemosina e dormono in luoghi di fortuna nonostante l’arrivo di aiuti per 70 milioni e la situazione alimentare è drammatica.                                                                                                             

Ad Adis Abeba, capitale dell’Etiopia, sono in corso le trattative di pace tra i litiganti che si scambiano reciproche accuse di sostegno a movimenti antigovernativi del Paese avversario. L’attuale impasse sarebbe dovuta alla mancata scarcerazione di 4 detenuti politici e alla presenza delle truppe ugandesi in Sud Sudan.

Di fronte alla brutalità e all’insensatezza della guerra ogni parola sembra superflua. Si è parlato di Yemen, Daghestan e Sudan; si sarebbe potuto parlare di Ucraina, Centrafrica, Colombia o di altre decine di Nazioni. Cambiano i nomi e i luoghi ma violenza e odio continuano a farla da padrone in un mondo che sembra non ascoltare il grido di disperazione che risuona ai suoi 4 angoli.

 

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