mercoledì 12 febbraio 2014

La difficile essenza dell’essere Palermitani

di Raimondo Augello
Dallo scorso 28 novembre è distribuito nelle sale cinematografiche italiane il film “La mafia uccide solo d’estate”, scritto, diretto e interpretato da Pierfrancesco Diliberto, meglio noto come Pif. Il film sta riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica, come testimonia il primo premio ottenuto al Torino film festival. Personaggio noto al pubblico televisivo, per la sua collaborazione con Le Iene e con MTV, il palermitano Pif rappresenta davvero un’autentica sorpresa per il fatto che, pur essendosi già occupato di cinema collaborando come aiuto regista nel 2000 con Marco Tullio Giordana nella realizzazione de “I cento passi”, il film che rievoca l’esperienza umana, civile e politica di Peppino Impastato, mai aveva raggiunto un personale successo cinematografico paragonabile a quello che sta vivendo in questo momento.

Dichiarato dal Ministero dei Beni Culturali film di rilevante interesse culturale e realizzato con la collaborazione dei ragazzi di Addio Pizzo, “La mafia uccide sempre d’estate” racconta con un linguaggio fresco ed accessibile a tutti, non esclusa una cifra linguistica talora cara al pubblico giovanile, la storia di Arturo, giovane palermitano  e  del suo processo di crescita dalla culla sino alla piena maturità, sullo sfondo delle vicende di mafia che hanno segnato la storia di Palermo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Una sorta di realizzazione cinematografica di un romanzo storico di chiara ispirazione autobiografica, nel quale tuttavia è possibile per ciascun palermitano che abbia vissuto quegli anni ritrovarsi e provare le stesse emozioni del protagonista. E ad accompagnare come un leit-motiv l’intera vicenda, sta l’innamoramento di Arturo per Flora, un sentimento concepito tra i banchi delle elementari e poi coltivato e gelosamente vagheggiato per parecchi lunghi anni.

Il film, per buona parte del suo svolgimento, si mantiene su un registro comunicativo che rasenta il comico, con una rappresentazione non soltanto delle vicende personali di Arturo, ma anche dei tragici fatti di cronaca che vi fanno da sfondo, segnata da una forte ironia. Lo spettatore, non senza un certo imbarazzo, si trova così di fronte ad un Totò Riina o ad un Leoluca Bagarella ridotti ad una essenza quasi macchiettistica, con una modalità narrativa del fenomeno mafioso che ricorda per certi versi il film “Tano da morire” di Roberta Torre (d’altro canto, non è forse proprio Peppino Impastato che ci ha insegnato la forza dissacratrice di una risata nei confronti dell’arroganza mafiosa?). Parlo di imbarazzo ma sarebbe forse meglio parlare di perplessità, nella misura in cui il film, nel suo agile dipanarsi tra il serio e il faceto, lascia incerto lo spettatore stesso se ci si trovi di fronte ad un’opera ridanciana (ammesso che si possa ridere di fatti di tal genere), di mediocre livello artistico per la sua leggerezza, o se piuttosto voglia andare a parare altrove, magari sviluppando un messaggio profondo capace di toccare nel vivo, come solo un lavoro di forte spessore sa fare, la sua coscienza. Ben presto, però, ci si accorge di come il film voglia raccontare il processo di maturazione di un’intera città, un tempo complice o indifferente in molte delle sue componenti, ma incontenibile nella sua ribellione morale contro l’assenza o la connivenza delle istituzioni al momento delle stragi del ’92. Una sorta di “metanoia” si direbbe con termine greco, un autentico capovolgimento del modo di pensare e di percepire la realtà che passa attraverso un doloroso processo di acquisizione di coscienza. Nel pensiero tragico di Eschilo, la conoscenza umana poteva passare soltanto attraverso la sofferenza, principio riassunto dal poeta nella formula “pathei mathos” (la conoscenza attraverso la sofferenza) e davvero i tempi tragici di un dramma collettivo pare ripercorrere l’ultima parte del film  in cui, abbandonato ogni intento ironico, il regista riesce a strappare allo spettatore un moto di commozione ed una viva partecipazione ai fatti che scorrono dinnanzi ai suoi occhi. Perché quel momento di straripante ribellione finisce nel racconto di Diliberto per coinvolgere tutti, anche coloro che sino a quel momento non avevano voluto o non avevano saputo aprire gli occhi, e come in un inestricabile nesso tra vita privata e pubblica, tra sentimenti individuali e passione civile, il protagonista Arturo riuscirà a coronare il suo sogno d’amore nato tra i banchi di scuola soltanto quando, senza parole, si ritroverà di fronte l’amata Flora (precedentemente segretaria dell’onorevole Lima del quale condivideva il programma politico), durante una di quelle manifestazioni di protesta contro uno Stato assente. E il film si chiude con le immagini, belle e commoventi, di Arturo che, come in un itinerario di crescita morale e civile, porta il proprio bambino ancora molto piccolo sui luoghi simbolo in cui sono cadute le vittime della mafia, quasi a volere trasmettere al proprio figlio sin dalla più tenera età il testimone di quella coscienza cui ormai non era più possibile rinunciare, espletando così nel modo più nobile e consapevole il proprio magistero paterno, che consiste nell’accompagnare il figlio alla conoscenza della realtà. Una realtà, appunto, frutto di una sofferenza individuale e collettiva. Una sorta di composizione circolare dunque, che partendo dall’infanzia del protagonista si chiude con l’infanzia del suo bimbo, in cui il messaggio pare essere che l’esperienza storica vissuta da un palermitano appare così forte da condizionare e improntare di sé ogni forma di amore, quello per un figlio, ma anche l’amore inteso come eros, che sboccia dopo tanti anni senza bisogno di parole soltanto quando i due protagonisti incontratisi casualmente, avvertono, guardandosi negli occhi, la condivisione di quel percorso di sofferenza e di conoscenza.
Il film ha dunque non soltanto il merito di ripercorrere i principali fatti di cronaca di mafia che abbracciano più di un ventennio di storia cittadina, ma soprattutto di dare voce all’esperienza e  alle emozioni che certamente tanti Palermitani condividono con il regista.

Un paio di anni addietro, mi è capitato di partecipare alla tonnara Bordonaro alla commemorazione di Libero Grassi, il primo imprenditore che a Palermo aveva osato opporsi alla violenza del racket. In quella circostanza, oltre alla vedova Pina Maisano, ai ragazzi di Addio Pizzo, ad autorità e magistrati, era presente il giornalista milanese Gianni Barbacetto, corrispondente di cronaca giudiziaria dal capoluogo lombardo per conto de Il Fatto Quotidiano, giornale del quale è considerato una delle principali firme, nonché direttore dell’Omicron (Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord) . Ebbene, Barbacetto, presa la parola, ha lodato gli enormi passi avanti fatti dalla società civile palermitana nell’arco degli ultimi decenni, la nascita delle associazioni, il proliferare delle denunce, la scomparsa di quel clima di omertà che aveva in sostanza finito per costituire una sorta di luogo comune dell’essere siciliani.

Una consapevolezza, insomma, che al dire di Barbacetto deve porsi come modello per qualsiasi altra comunità che voglia opporsi seriamente al fenomeno mafioso. Raccontando dei tanti processi di mafia a cui aveva assistito per lavoro, il giornalista riferiva di un clima di omertà da parte di gran parte degli imprenditori milanesi, talora anche di fronte all’evidenza delle intercettazioni telefoniche, rivelatrice di  una sottovalutazione o di una sudditanza nei confronti del problema mafioso, tale da indurre Barbacetto a concludere dicendo che “da noi siamo indietro di trent’anni rispetto a Palermo nella percezione del fenomeno”.  E proprio di questi trent’anni vuole raccontarci il film, di quel difficile percorso riconosciuto dallo stesso giornalista de Il Fatto Quotidiano, di quel doloroso processo di crescita diventato ormai parte irrinunciabile della complessa condizione dell’essere Palermitani. Un film che se nel suo genere non può definirsi a pieno titolo un capolavoro (come certamente lo è “I cento passi”), può forse dirsi un “quasi capolavoro”, secondo una definizione ricorrente in alcune recensioni diffuse in questi giorni.

 Ormai da alcune settimane la proiezione del film è proposta alle scuole cittadine di ogni ordine e grado che con ampio afflusso hanno aderito all’iniziativa, dalle elementari ai licei. L’auspicio è che questo grande interesse possa concorrere a creare nelle nuove generazioni una nuova consapevolezza che, a Palermo come altrove, crei le basi di una conoscenza che spezzando la fatalistica meccanica di derivazione eschilea superi l’anello della sofferenza come passaggio ineluttabile; evitando così che si possa ripetere ciò che è accaduto a Palermo e di cui la nostra generazione è stata attonita testimone prima di tradurre in ribellione la propria indignazione.   

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