martedì 22 ottobre 2013

'A città e Pulecenella. Il sonno della ragione genera mostri



di Raimondo Augello

Pochi giorni addietro avevamo pubblicato un articolo in cui commentavamo la scelta del giudice sportivo di sanzionare la tifoseria milanista, recidiva per i suoi cori razzisti nei confronti dei napoletani, con la chiusura per un turno di San Siro. Il titolo del pezzo, ispirato ad una speranza tuttavia frenata da una certa dose di ironica diffidenza era “L’Italia s’è desta (ed era ora)”. A chiusura dell’articolo, infatti, avevamo manifestato il timore che la Lega Calcio non trovasse la forza per applicare la misura repressiva decretata, intimidita dalla quasi unanime ribellione al provvedimento che ha visto solidali  con la società rossonera quasi tutte le tifoserie d’Italia e gli stessi presidenti di parecchie società.



Ebbene, quanto paventato è puntualmente accaduto: la Lega Calcio, tornando sui suoi passi, ha revocato il provvedimento ricorrendo, riguardo al reato di “discriminazione territoriale”,  all’escamotage di applicare il principio della condizionale. Cioè a dire, se si dovessero verificare cori discriminatori la chiusura dello stadio scatterà soltanto dopo un anno, a patto però che l’episodio si ripeta altre volte nel corso dell’anno in questione. Detto e fatto: con applicazione immediata e retroattiva del principio sancito, sabato 19 ottobre Milan-Udinese, prevista a porte chiuse, si è svolta invece con tutti i settori dello stadio aperti al pubblico, curva compresa. Non credo che serva molto soffermarsi a commentare una tale scelta e a dire quanto essa si traduca in un segnale di debolezza nei confronti delle frange peggiori del nostro tifo: si tratta di un preciso atto di capitolazione di fronte ad un fenomeno, come già illustrato, diffuso da decenni e sinora tollerato con compiacente disinteresse da parte di chi avrebbe potuto e dovuto provvedere a reprimerlo da tempo. Un atto di capitolazione che di fatto consegna gli stadi e le società di calcio stesse, spesso così indulgenti verso le pose dei propri ultras, al ricatto che viene dal peggio delle proprie tifoserie e ai rigurgiti più beceri che sgorgano  dalla più elementare gestione delle sue pulsioni.  Evidentemente, per fatti di tal genere il principio della responsabilità oggettiva, da sempre un dogma per la giustizia sportiva, non  vale a nulla. Riflettiamoci: se un balordo decide di lanciare in campo una bottiglietta la società di calcio, come sempre accaduto, rischia di perdere la partita a tavolino e di subire la squalifica del campo; se invece ad esempio, come accaduto lo scorso 5 ottobre a Bologna, duemila tifosi veronesi in trasferta decidono di violare il minuto di silenzio in memoria dei migranti periti nella strage di Lampedusa la notte del 3 ottobre, intonando all’unisono una irridente marcia funebre, si continuerà a parlare di goliardia, di innocente ironia (naturalmente conoscendo i sentimenti di solidale umanità coltivati dagli ultras veronesi nei confronti di chi è diverso da sé!). 
Quanto ai Napoletani, continueranno a dover tollerare i cori nei loro confronti. Pazienza! D’altro canto è da quando il già citato marchese Massimo D’Azeglio li definì “carne che puzza” che ci sono abituati.
In un’Italia dalle poche certezza sarebbe stato auspicabile che la giustizia sportiva, spesso dimostratasi più inflessibile di quella ordinaria, ci fornisse qualche riferimento in più, e invece, anche questa vicenda si è conclusa con modalità tipicamente italiche, un miserevole gioco delle parti all’insegna di una totale incapacità di mantenersi coerenti ai princìpi: tutto secondo il copione della migliore farsa italica.    
  “Il sonno della ragione genera i mostri”: il timore  è che il sonno indotto della memoria abbia generato la presunzione che essi siano frutto della normalità.

 

 

 

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