sabato 24 novembre 2012

Gaza, tra angoscia e speranza

di Valentina Sechi
Proprio quando si profilava sempre più lontana, sorprendentemente, la tregua nella crisi israelo-palestinese è stata infine annunciata la sera del 21 novembre. Lo stesso Ministro degli Esteri egiziano Mohammed Kemel Amr, ha annunciato “ l'accordo per il cessate il fuoco e il ripristino della calma”.La tregua, così faticosamente conquistata, si articola su tre punti: la cessazione da parte di Israele di tutte le operazioni  aeree, terrestri e marittime verso Gaza,la conclusione degli attacchi militari su Israele, la riapertura del valico di Rafah (tra la Striscia di Gaza e l'Egitto) 24 ore dopo il cessate il fuoco delle 21 ora locale per facilitare lo spostamento di merci e persone. Secondo Marzouk, l'Egitto garantirà il rispetto dell'accordo e tutte le fazioni palestinesi “sono per la calma” e il Primo Ministro Haniyeh invita i palestinesi a rispettare il cessate il fuoco. Per controllare la situazione, il Presidente Morsi ha annullato la sua visita in Pakistan. Nonostante la conclusione delle ostilità, il cielo del Medio Oriente non è terso: da un lato il Premier Netanyahu avverte che Israele è pronto ad agire se la tregua sarà violata e  il ministro Lieberman sostiene che il regime di Hamas dovrà essere rovesciato, ma è impensabile a due mesi dalle elezioni avviare un'occupazione che ne richiederebbe più di quattro; dall'altro, il Premier Haniyeh esorta i “mujahedeen a tenersi pronti a riprendersi Gerusalemme”, sostenendo che la prossima volta il nemico ci penserà bene prima di iniziare la battaglia. 

Ma mettiamo ordine a quanto accaduto negli ultimi giorni di conflitto. La crisi israelo-palestinese era riesplosa a seguito dell’atto primo dell’operazione Pilastro di difesa condotta dalle forze di difesa israeliane (IDF): l’uccisione di Hamed Jabari, comandante dell’ala militare di Hamas Al Qassam, ritenuta dall’organizzazione un atto di guerra e la distruzione di altri 20 siti nei pressi di aree residenziali che doveva dimostrare come Hamas si servisse dei civili come scudo.

Lo scopo della campagna militare avviata, secondo il governo israeliano a seguito di 5 giorni ininterrotti di bombardamenti, sarebbe stata fermare gli attacchi missilistici provenienti dalla striscia di Gaza e distruggere i supporti logistici di Hamas, cercando di riportare la pace nel Sud di Israele e colpire le organizzazioni terroristiche, nonostante Israele avesse assicurato che non intendeva rovesciare il regime di Hamas, ma fermarlo per proteggere la propria esistenza. La controffensiva non si era fatta attendere con l’operazione Pietre di argilla cotta che, per la prima volta dopo la Guerra del Golfo (1991), aveva colpito la città di Tel Aviv. A questa Israele aveva risposto richiamando 75.000 riservisti di cui 31.000, mentre diverse brigate corazzate di fanteria erano state situate nel deserto del Negev, al confine con Gaza, avvalorando l’ipotesi di un’invasione terrestre che lo avrebbe privato di gran parte del supporto internazionale. Le condizioni poste dalle parti erano chiarissime: Israele chiedeva una tregua di 15 anni, la cessazione di trasferimento e contrabbando di armi a Gaza, la fine del lancio di missili e degli attacchi ai soldati israeliani vicino la frontiera, il diritto di perseguire i terroristi in caso di attacco anche imminente, l’apertura del passaggio tra Gaza ed Egitto e la chiusura di quello tra Gaza e Israele, la garanzia dell’Egitto. La Palestina invece la fine dell’embargo a Gaza e delle uccisioni mirate, l’estensione della tregua a tutti i Territori Palestinesi.

La Comunità Internazionale si era adoperata attraverso i canali diplomatici per scongiurare una guerra di proporzioni immani: se USA, UE e altri Stati Occidentali avevano preso le parti di Israele sostenendone il diritto all’autodifesa, Paesi arabi e musulmani come Iran, Turchia ed Egitto sostenevano la causa palestinese; il primo aveva invitato gli altri Paesi arabi a inviare armi ai Palestinesi mentre il secondo, per mezzo del  Presidente Erdogan aveva definito Israele uno Stato terroristico. Particolarmente delicata è stata poi la posizione dell’Egitto su cui la Comunità Internazionale ripone le speranze affinchè potesse riescire a conciliare i litiganti, in virtù dei suoi buoni rapporti con Hamas che si temeva potesse sfruttare il consenso presso l’opinione pubblica egiziana, la pressione dei Salafiti sul governo e la mancanza di controllo sul Sinai per trasformare il Paese nella retroguardia della sua guerra contro Israele.

Una tregua di 3 ore si era registrata il 16 novembre in occasione della visita del Primo Ministro egiziano a Gaza giunto per mostrare solidarietà al popolo palestinese. In questo frangente, tuttavia, 50 missili erano stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il Sud di Israele a causa, secondo Hamas, del bombardamento della casa di un comandante dell’organizzazione ma tale circostanza è stata fortemente negata da IDF.

Gli scontri erano proseguiti  ai danni di centri del potere come l’ufficio del Primo Ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, e la torre Al Sharouk che ospitava numerose emittenti locali e internazionali tra cui Sky News, Press TV, Kuwait TV e Rai. Quest’ultimo evento aveva scosso l’associazione stampa estera che aveva espresso preoccupazione e richiesto al Consiglio di Sicurezza ONU una dichiarazione di condanna per gli attacchi ai giornalisti in zone di combattimento, mentre la riva Occidentale del Giordano era stata luogo di manifestazioni a sostegno di Gaza represse dalle forze israeliane. Un segnale positivo era stato dato dalla sospensione dei piani per l’offensiva di terra a Gaza per dare più tempo ai negoziati, benché il Premier israeliano Netanyahu affermasse che se gli attacchi non fossero cessati sarebbero stati costretti a prendere provvedimenti più vasti e non avrebbero esitato a farlo. Nonostante l'iniziale fallimento della mediazione egiziana, a cui era stato riconosciuto dagli USA in primis un decisivo contributo, altri attori internazionali si erano mossi: il Segretario di Stato americano Clinton si era confrontato con il Premier israeliano Netanyahu, il Ministro della Difesa Barak e quello degli Esteri Lieberman due volte ma anche con i leader palestinesi a Ramallah, successivamente si era recato al Cairo dove il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon  aveva raggiunto esponenti della Lega araba, invitando le parti a porre fine alle violenze e rispettare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di protezione dei civili. In occasione della conferenza stampa con il Segretario delle Nazioni Unite, il Presidente dell'ANP Abu Mazen aveva affermato che “un cessate il fuoco e una tregua avrebbero potuto essere il primo passo per accelerare e metter fine all'occupazione israeliana dei territori palestinesi”. In seguito, il numero due di Hamas, Musa Abu Marzouk aveva condannato l'esecuzione di sei presunti collaborazionisti di Israele a Gaza, definendola inaccettabile.

Il pensiero, nel momento in cui  finalmente dal cielo non piovono razzi,  le sirene non suonano più e la gente si riversa nelle strade per celebrare la fine di un incubo, deve correre alle vittime silenziose di questa guerra atavica, ai morti, ai feriti, a coloro che soffrono a causa di essa, a chi non ha voce, a chi è stato colpevole di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, in un parco, una scuola, un ospedale vicino a un obiettivo. Il bilancio che 8 giorni di bombardamento lasciano dietro di sé è pesante:1235 feriti, 11 000 sfollati  e 160 morti di cui, secondo l'ufficio Affari Umanitari delle Nazioni Unite 103 civili. Mediare tra due istanze così  nettamente agli antipodi è difficile e ne è prova la tregua che sarebbe dovuta scattare martedì notte  è saltata.  Basta una mossa falsa perché l’equilibrio faticosamente conquistato si incrini. Per lasciarsi questo passato di odio e dolore alle spalle basterebbe guardare ciò che i due Paesi hanno in comune e unire le forze sull’esempio dell’Europa: terra a lungo teatro di guerre  come quella che ha visto contrapporsi Francia e Germania le quali, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale hanno scelto la via della collaborazione gettando le basi per quella che oggi è l’UE.

In ebraico il termine pace è shalom invece in arabo salam, due termini abbastanza simili forse perché, in fondo, questi Paesi sono più simili di quanto non si creda. Ecco, basterebbe partire da questo, dalla consapevolezza che la guerra genera violenza, distruzione, sofferenza. Non esistono vincitori, in questa guerra a perdere sono tutti e allora, piuttosto che in un gioco a somma zero, sarebbe meglio impegnarsi da ambedue le parti per porre fine a un conflitto che ha visto scorrere fin troppo sangue.

Forse ci vorranno anni ma quello che conta è l’impegno a mettere da parte i propri egoismi e collaborare. Ciò che importa è che si compiano in fretta  i primi passi in tal senso a partire dalla  tregua raggiunta perché, come si suol dire, chi ben comincia è a metà dell’opera.

Valentina Sechi

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