martedì 24 gennaio 2012

Echi dalla Shoà

di Francesca Saieva
Occuparsi di un tema così controverso come quello della Shoà, mi porta immediatamente a una riflessione aperta e interrogativa. Porre l’attenzione sull’universalità della memoria o trattare la questione in termini di metastoria?
Si potrebbe partire dalla specificità di queste due prospettive e, forse, riuscire a trovare una terza chiave di lettura, una sorta di nesso che intercorra tra il paradosso proprio del rammemorare («non è possibile cercare qualcosa che si è perso che non lo si ricordi almeno in parte») e una Jetzt-Zeit, che trova nella consequenzialità temporale la sua stessa ragion d’essere, quale equilibrio tra l’immagine del passato e la coscienza del presente.

È Luisa Passerini a sostenere che «sia il ricordo sia la dimenticanza sono processi multipli nel tempo storico e nella percezione individuale», da cui scaturirebbero le ambigue forme di memoria. E nella rilettura benjaminiana, fatta da Desideri, si evidenzia «l’immagine del passato – che – semplicemente non ‘sta’; non è irrevocabile se non per quel presente che non l’afferra», quasi che la necessità del factum si esaurisca nel paradosso del «non ancora». Forse solo in questi termini rivivono nella necessità liberata dal ‘possibile’ alcune delle pagine più tristi della storia, nella disperata ricerca di un senso, che attecchisce nella speranza, e trova in essa la risposta ad ogni silenzio.
«Accendere nel passato la favilla della speranza», perché il processo di ricostruzione storica si effettui in un «tempo redento» quale superamento dell’esperienza nell’’azab, simultaneità dell’abbandonare e del raccogliere, perché, di uguale natura, separazione e incontro si celano dietro lo stesso mistero (Neher)
Alla luce di un Forse storico nella sua dimensione fenomenologica, da decenni rileggiamo «la Shoà hitleriana [avvenuta] nel silenzio di tutte le nazioni del mondo» (Federici), cercando di capire quanto della sua memoria e dei suoi accadimenti sia esplicativo di un identitarismo e messianismo ebraico.
La questione sull’identità ebraica rimane comunque aperta. Proprio Luisa Passerini, sottolineando l’immane quantità dei genocidi nel corso della storia, asserisce con Isabel Fonseca che la reazione degli ebrei alla deportazione sia stata e continui a essere un’impresa monumentale di rimembranza, da contrapporre all’arte della dimenticanza del popolo zigano. Memoria storica o rimozione del passato non sono semplici atteggiamenti, semmai costitutivi dell’identità di un popolo, del suo senso di appartenenza o della negazione di un passato storico. «[…] La storia – sostiene Neher – per l’entità ebraismo-ebrei è un elemento costitutivo della sua essenza. Non si separerà mai questa entità dal suo divenire, dalla sua ‘proiezione’, sia essa retrospettiva o prospettiva».
Il «futuribile» è nel silenzio di Auschwitz, nell’ambiguità del suo dire, nella speranza senza salvezza, che vibra anche per mezzo delle “sordine”, è nella semina e nel raccolto, «ma nessun autunno assomiglia all’altro e nessuna primavera all’altra primavera» (Neher). È il balbettamento «di una risposta», secondo il linguaggio buberiano, nell’unità dell’interrotta permanenza, è unità silente, del predicatore ambulante di Wiesel, della benjaminiana spes contra spem, del trepido terrore dello sguardo dell’Angelo, della tempesta che si è impigliata nelle sue ali, spingendolo nel futuro, a cui volge le spalle, nell’«attimo redento» tra il cumulo delle rovine. Perché ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta (Benjamin).

Tratto dal saggio di Francesca Saieva, Shoà e metastoria: echi da Benjamin e Neher, pubblicato in “Amaltea” , anno VI - n.1, marzo 2011.
http://nuke.amalteaonline.com/Portals/0/upload_rivista/Rivista_ventuno/05_Saieva_Shoa%20e%20metastoria,%20echi%20da%20Benjamin%20e%20Neher.pdf

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