domenica 18 settembre 2011

Storie di ordinario razzismo.



Lettera aperta a Piero Angela


di Raimondo Augello


Gentile dott. Angela,
sono un telespettatore che da anni segue le sue trasmissioni e che apprezza il suo sforzo, peraltro egregiamente riuscito, volto a  ritagliare uno spazio riservato alla conoscenza e alla divulgazione all’interno di una televisione sempre più condizionata da logiche di ordine quantitativo piuttosto che qualitativo  e sempre più distante da qualsiasi preoccupazione di tipo formativo. Oggi, tuttavia, io non le scrivo per comunicarle la mia ammirazione, bensì per esprimerle la mia risentita indignazione riguardo alla puntata di Superquark andata in onda lo scorso 11 agosto. Nel corso di tale puntata si è verificato l’intervento di quello storico di cui mi sfugge il nome (sarà forse frutto di una sorta  di “consapevole” rimozione? Credo comunque che si chiami Barbero) ospite fisso della sua trasmissione, in cui in pochi minuti si cercava di dare conto dell’origine del fenomeno camorristico a Napoli.


Ebbene, con ineffabile naturalezza, il nostro storico forniva una  spiegazione in chiave antropologica di chiara derivazione lombrosiana di un fenomeno che, invece, come tutti sanno, può essere compreso solo se, deposto ogni pregiudizio di vago sapore razzistico e fatto appello alla propria onestà intellettuale (laddove ve ne sia un briciolo, beninteso), ci si pone in una prospettiva di tipo storico. In buona sostanza, il nostro caro esperto, partendo da un’analisi della Napoli del ‘600 dei tempi di Masaniello, arrivava a sostenere che sin da allora nella città partenopea era presente una matrice culturale di tipo camorristico, e a meglio suffragare tale idea di una sorta di “innata inclinazione al crimine” (non lo dice esplicitamente ma la sostanza del suo pensiero è tale) cita una novella medievale del Boccaccio (di cui non dice il titolo, ma essendo docente di lettere glielo ricordo io: si tratta di Andreuccio da Perugia) ambientata nei bassifondi di Napoli, nel bosco e sottobosco dei cui vicoli si muove un’umanità perduta e dedita al crimine. Dunque già da allora napoletani camorristi o comunque delinquenti, che importanza ha fare di queste sottili distinzioni per uno storico? Ma per rendere ancora più esaustivo e dunque persuasivo il suo excursus   il nostro caro specialista cosa fa? Volge lo sguardo alato e illuminato verso tempi più recenti ed ecco la chicca: a confermare l’idea lombrosiana della natura camorristica e dunque deviata della psiche meridionale ci racconta che quando dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte la fortezza di Fenestrelle si riempì di soldati napoletani questi, udite udite, dediti al gioco d’azzardo, erano controllati da carcerieri  anch’essi napoletani (figuratevi i Piemontesi che mettono dei conterranei a guardia di soldati da loro assai temuti e di cui riconoscevano lo  strenuo eroismo)  che riscuotevano una sorta di “pizzo” su quelle giocate: insomma, terroni erano e terroni rimasero, pure in punto di morte!   
Occorre a questo punto fare un po’ di chiarezza per quei pochi che ancora non avessero le idee sufficientemente chiare. Dire che nella società napoletana del ‘600 vi fossero diffusi comportamenti di tipo mafioso equivale a non dire nulla. Nel ‘600 infatti, come è noto, l’Italia intera, Napoli come Milano, erano sotto il malgoverno spagnolo, dove uno Stato lontano se non del tutto assente, che faceva sentire la sua presenza solo con un carico fiscale estremamente gravoso (al Sud sarà così e sempre più dall’arrivo dei Savoia in poi, Giovan Battista Vico parlerebbe di corsi e ricorsi storici!), aveva lasciato il Belpaese nel disordine e nell’assenza di leggi che venissero davvero rispettate. Insomma, un vuoto di potere nel quale era inevitabile che trovassero spazio di manovra i pre-potenti, i signorotti locali e i loro sgherri, sorta di mafiosi ante litteram, insomma l’esatta fotocopia della società lombarda descrittaci da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, con il suo corollario di bravi, dediti di mestiere all’intimidazione e di figure come don Rodrigo  e l’Innominato pre-conversione, che rappresentavano per quella società la vera legge.
Arrivare poi a strumentalizzare una novella del Boccaccio a sostegno della teoria che vuole dimostrare la presenza della devianza nella Napoli medievale è addirittura patetico: tutti sanno come i grandi narratori del naturalismo francese ottocentesco, da Flaubert a Balzac, da Zola a Maupassant, abbiano basato la loro arte sulla raffigurazione del grande affresco della devianza diffusa nei bassifondi della metropoli parigina, colta nelle sue forme più aberranti. Cosa diremo allora dei Francesi, caro il nostro specialista, che sono “naturalmente” disposti al crimine anche loro? Suvvia, riconosciamolo, gli autori francesi sono proprio noti come studiosi della devianza analizzata con criteri positivistici, cioè scientifici, andando essi alla ricerca giusto dei meccanismi psicologici che determinano la genesi del crimine, mentre in fondo Boccaccio è meglio conosciuto per ben altri argomenti. Ma di lui, ahimè, con una vera e propria operazione di tipo  selettivo che fa tanto rima con manipolativo, che cosa ricordiamo? Il contesto che fa da sfondo alle avventure di Andreuccio da Perugia: non sarà dovuto al fatto che in quel contesto si muovevano soggetti napoletani? A proposito, la prostituta che  nella novella entra in contatto con Andreuccio è palermitana, proprio come me, caro professore. Il punto tuttavia in cui la lezione del nostro storico  finisce di generare ilarità e provoca lo sdegno necessario per impugnare la penna è quando egli parla di Fenestrelle.
A Fenestrelle, proprio nell’imminenza del centocinquantenario dell’unità, Raistoria, con la partecipazione di parecchi storici e con il ricorso a numerosi documenti anche d’archivio, ha dedicato una puntata commovente. Si tratta del più famigerato tra i lager (ve ne erano parecchi: ad Alessandria, San Maurizio Canavese, Lodi, Milano, Bergamo, la fortezza di Priamar presso Savona, Bologna, Parma e tanti altri ancora) che i Savoia all’indomani della brutale (basta consultare i documenti per capire come questo aggettivo costituisca un vero eufemismo, ma siamo in clima di sbornia post-festeggiamenti unitari, evitiamo di usare toni ed argomenti troppo espliciti, lasciando la briga a chi ne abbia voglia di documentarsi) annessione del Sud allestirono per detenere in condizioni che in base alle  cronache del tempo (sinora gelosamente tenute nascoste al grande pubblico) potremmo definire disperate parecchie decine di migliaia ( le stime più attendibili di molti storici parlano di centinaia di migliaia) di  meridionali che si opponevano alla brutalità di quella annessione e a ciò che ne era seguito. E non si trattava solo di soldati borbonici che avendo giurato fedeltà al proprio re e alla propria patria non volevano rinnegare quel giuramento  per passare ad un altro esercito, come avrebbero voluto i Savoia, ma anche di semplici contadini, di donne, bambini, preti soprattutto, che relegati in una totale promiscuità scontavano la colpa di essere magari solo sospettati di avere a vario titolo sostenuto la causa della resistenza dei partigiani delle Due Sicilie, quelli che come scrive Antonio Gramsci “storici salariati hanno infamato con il nome di briganti”.  Ebbene, il più famigerato di questi lager fu proprio Fenestrelle, imponente struttura militare posta sulle Alpi torinesi tra i 1300 e i 2000 metri, dove come documentato anche da Raistoria la vita media non superava mai i tre mesi (laddove non ci si suicidava prima, come accaduto i numerosissimi casi), dove gli infissi erano stati divelti per rendere ancora più atroce la sofferenza di quei poveretti malvestiti, abituati “al dolce clima delle loro contrade d’origine” come si leggeva su Civiltà Cattolica (i numerosi certificati di morte dei prigionieri  mostrati su Raistoria e consultabili  su Internet segnalano nella massima parte dei casi come causa di morte “crisi respiratoria”, morti di freddo, in altre parole), dove si entrava accolti da una scritta posta sulla cancellata d’ingresso che recitava “ognuno vale non per ciò che è, ma per ciò che produce” (le ricorda qualcosa, esimio professore? A  me che mastico un po’ di tedesco un “Arbeit macht frei” , posto sulla cancellata d’ingresso di qualche altra località che adesso non ricordo…  ah ecco, ci sono, si trattava di Auschwitz!) e si usciva da morti gettati nella calce viva (i forni non li avevano ancora inventati!) contenuta in un’apposita vasca ancora visibile alle spalle della chiesetta della fortezza.
Recentemente l’amministrazione di Fenestrelle ha sentito il dovere di dedicare ai soldati borbonici morti in quell’inferno una lapide a conclusione di una toccante cerimonia documentata dal TG 3 Regione Piemonte. Nella targa si ricorda l’eroismo di uomini che, si dice , tra indicibili sofferenze preferirono morire piuttosto che rinnegare il proprio giuramento. “I pochi che sanno si inchinano”, conclude l’iscrizione, ma il suo peccato, caro professore, evidentemente non è il non sapere, bensì il non inchinarsi. Cosa direbbe lei da storico, se un suo collega tedesco, prima ancora di illustrare al grande pubblico le atrocità di cui furono fatti oggetto i soldati italiani prigionieri in Germania dopo l’8 settembre per il semplice fatto che si rifiutavano di passare dalla parte dei Tedeschi, si arrogasse il diritto di giudicare come mafiosi gli Italiani sulla base di chissà quale pettegolezzo riferito alla condotta di quei prigionieri? Direbbe che quel suo collega manca di onestà intellettuale. E’ esattamente quello che ho pensato io di lei, caro professore. Non è che su una serena e obiettiva valutazione della storia di questi ultimi 150 anni grava il giudizio di quegli ”storici salariati” di cui parla Antonio Gramsci?
Quanto alle vere ragioni della genesi e dello sviluppo del fenomeno mafioso, che si accompagna e si amplia a partire dall’occupazione piemontese in poi, beh, si tratta di materia così ampia che mi riservo di scriverle in seguito un’altra lettera . E le assicuro che non mancheranno gli argomenti, visto che tra l’altro, oltre ad essere cultore della materia, vivo pure a Palermo e ho avuto pure l’onore di prestare servizio nella Polizia di Stato, in certi turni anche al fianco di Giovanni Falcone e di parecchie delle vittime di Capaci e di via D’Amelio.
Per il momento le consiglio una lettura: si tratta di un saggio pubblicato qualche anno fa  da un autore inglese, Denis Mack Smith, dal titolo La storia manipolata, in cui l’autore anglosassone indica proprio nella mistificazione operata nel corso dei  150 anni da parte della storiografia ufficiale sui fatti seguiti all’annessione del Regno delle Due Sicilie un esempio paradigmatico e di portata mondiale sinora ineguagliata di come i vincitori manipolino a loro vantaggio la realtà dei fatti. Buona lettura e auguri, magari con la sua opera riuscirà a meritarsi una citazione in appendice al lavoro  dello Smith.

A lei, dott. Angela, auguro invece per la prossima volta maggior fortuna nella scelta dei suoi collaboratori, ispirato da quell’equilibrio, da quella affabilità e da quella competenza che non le hanno mai fatto difetto.
                                                                                                         Cordiali saluti






  

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