domenica 10 aprile 2011

I boati

I parte
di Enzo Barone
Da principio furono due, improvvisi, terrificanti, come una frana rovinosa e ineluttabile di grossi macigni o persino il rovinare del fianco stesso di una montagna. Si udirono molto vicini tra loro a distanza di dieci - quindici secondi tra loro e sconvolsero l’eternità luminosa delle undici del mattino in una trionfale domenica di sole in giugno.
Entrambe le volte il loro fragore pareva dapprima come se dal fondo di una pietraia madornale si fosse aperta di schianto la cataratta che la conteneva, facendo rotolare rocce immani con un frastuono degno degli antichi titani; poi il rimbombo echeggiava rotondo e maestoso, rimbalzando da una costa montuosa all’altra, da un dirupo pietroso a un orrido frondoso.
Ognuno si ritenne sorpreso dai fenomeni, violato come da un’offesa brutale e inaspettata, soprattutto in ragion del fatto che nessuno tra le Prealpi trevigiane e l’Alpago, nessuno poteva dire di avere coscienza circa la provenienza di quei rumori.
Giù a fondo valle, a Vittorio, a Cordignano, nel Fadalto, i rimbombi invece erano arrivati riverberati, moltiplicati, più paurosi forse, e per chi li aveva uditi, assumevano l’aspetto di terrore incombente, di un disastro, che maturato sui monti, arrivi a valle ormai come conseguenza inevitabile, sciagura inarrestabile.
Più di uno, che in montagna ne aveva viste e udite tante, li paragonava alla sensazione d’impotenza e angoscia provata sentendo arrivare una valanga.
 A Berto, dalla sua casetta appena fuori dal bosco sull’altopiano, quel frastuono sembrava piuttosto e più semplicemente il rotolare inarrestabile del pietrisco dalla ribalta metallica di un cassone di un enorme camion.
A Sarmede, Checco Comiotto, che era un mistico e prima ancora cacciatore di frodo, pensò subito al Padre Eterno e si ricordò che qualche giorno prima, giù in Palestina, aveva preso a bruciare il monte del Carmelo. E allora fu sicuro che quello dovesse essere il secondo segno certo dell’apocalissi imminente. Ne parlò quella stessa mattina in osteria. Fu per quello che De Profundis, lo scemo del paese, schizzato fuori dalla porta come un razzo e invasato da sacro furore, prese a benedire tutte le case della piazza, aspergendole col vin rosso.
Qualcuno, più d’uno di certo, invece, guardando verso nord, oltre il Nevegal, oltre il Dolada, sentiva un gran vuoto alla bocca dello stomaco, pensando a quarantasette anni prima e cercava di abrogare anche dal solo pensiero la parola Vajont. Ma taceva, per pudore.
Il TG regionale della sera aveva parlato di quei boati poderosi, escludendo però l’idea del terremoto, perché gli indicatori non avevano registrato movimenti sismici di rilievo. Lo speaker diceva che non si trovavano per il momento spiegazioni plausibili, ipotesi scientificamente avvalorabili, alimentando ad arte, con un compiacimento giornalistico, un certo alone di mistero. A Vittorio, a Piazza Fiume i vecchi professori, che discettavano di letteratura tutti i pomeriggi ai tavolini del caffè, ricordavano piuttosto le atmosfere nutrite di fantastico dei racconti buzzatiani e imbastivano sontuose trattazioni sul tema, recuperando nella sua opera puntuali riferimenti al caso attuale.
Sull’altopiano, invece, gli uomini della foresta guardavano le cime degli abeti pizzicati lievemente dal maestrale e tacevano. Scrutavano l’arrossarsi del cielo e tacevano. Si stava in ascolto delle upupe, delle marmotte, degli alberi, dei ruscelli, tacendo. E quel silenzio pesava più di mille frasi.

Chi avrebbe voluto dimenticarsi di tutto, archiviando l’episodio tra i non rari fatti inspiegabili che ha in serbo la montagna, con qualche preoccupazione, dovette aggiustare il tiro, giacché proprio quella stessa notte, verso le due e mezzo, si udì un terzo boato, maestoso, inquietante, colorato per di più di tutta la funerea fatalità del blu della notte.
Tina, la sonnambula, per la prima volta in trent’anni fu destata di colpo dal suo girovagare per la corte davanti casa e, una volta sveglia, non trovò di meglio da fare che urlare a squarciagola, per la paura di essersi trovata, così all’improvviso, da sola, in camicia da letto davanti a se medesima nel cuore della notte in mezzo alla corte.
Le pite della Lucia, per non sapere leggere e scrivere, si erano messe a fare un baccano infernale e uscendo dall’aia in due, tre erano andate a beccare le terga a Cico, il meticcio di casa, perché salisse di sopra a svegliare, abbaiando, la padrona, la quale sorda com’era, se la sarebbe dormita ancora della grossa.
I campanili delle chiese della valle avevano preso a suonare uno dopo l’altro, come in un contagio inarrestabile, perché i sagrestani colti da un timore senza nome, né origine precisa,
non trovarono di meglio da fare, credendo allo stesso tempo di dare in quel modo manifestazione al panico della comunità.
Stavolta a qualcuno addirittura era parso di aver visto l’assessore Bottacin precipitarsi fuori da una delle ultime case del paese e, con le braghe al braccio, infilarsi, rapido come una faina, nella sua BMW. Ma erano discorsi da male lingue, perché tutti sapevano che era un uomo tutto d’un pezzo, per prima la moglie che si inorgogliva dal parrucchiere, rispondendo alle domande che il marito non s’era visto quel pomeriggio in giunta  parché l’era andà adiritura a Venezia a conferir coi pezzi grossi del partito.
La piazza, i cortili, gli slarghi intanto in pochi minuti si erano popolati di un po’di gente preoccupata e confusa, che si interrogava attonita sulle cause dei boati e sul da farsi, senza inutili chiassate però, con la contenutezza e il decoro veneto di sempre.
Passata così quella notte campale, al mattino, di buonora, il sindaco, avvocato Praloran, fece visita al maresciallo dei carabinieri, chiedendogli l’apertura di un’indagine in piena regola.
Il sottoufficiale, un paffuto e pacioso campano, che non mostrava grande apprensione né meraviglia eccessiva per quello strano fenomeno, fece redigere dall’appuntato di servizio un dovizioso verbale, che trasmise al comando regionale del Veneto, col quale inoltre si consultò telefonicamente per sapere che pesci prendere.
Intanto dopo la stampa e la televisione locale, anche quella nazionale si andava interessando all’accaduto. Un programma pomeridiano, uno di quelli per casalinghe in pausa tra lo sparecchio del pranzo e la cena da preparare, ci fece su una puntata, sviscerando tutte le possibili cause che avessero potuto dare origine a quei frastuoni clamorosi. Si interpellarono in studio acerbe pin-up e cantanti in disarmo; politici dal fondotinta facile e tuttologi per ogni occasione. Ma l’evento clou della trasmissione fu un fatidico collegamento con una santona di Bisceglie, sensitiva, rabdomante e all’uopo anche esorcista di bocca buona. Ogni dubbio era ormai da spazzare via dal campo delle possibili congetture investigative: trattavasi certamente dell’opera del Maligno. A cappello di quel memorabile pomeriggio televisivo il conduttore riassunse le redini del discorso, ribadendo che secondo gli esperti comunque si poteva escludere l’ipotesi di terremoto, almeno di un qualche rilievo.
Ad ogni buon conto la trasmissione ebbe il suo effetto là a Venezia tra le alte sfere.
Pareva che anche chi comandava giù in Regione oramai non potesse più far finta di niente o dare l’impressione di essere insensibile all’angoscia che vivono le popolazioni delle Prealpi e della montagna.
Si disse che qualcuno aveva battuto il pugno sulla scrivania, s’era attaccato al telefono, pretendendo da Roma per il nordest sostegno morale e rassicurazioni su tutto quanto potesse essere utile ed efficace, per risolvere prontamente il problema.
E puntualmente il pomeriggio dopo cominciò a sfilare da Piazza del Popolo, davanti al Municipio, il primo convoglio di quello che sarebbe stato per il mese a venire il più grande circo Barnum scientifico-geologico-militare-protezioncivilistico che si fosse mai visto da quelle parti.
Infatti alle cinque in punto arrivarono due camionette e un camioncino della Protezione Civile; a meno un quarto alle sei una Jeep da Venezia, col suo carico di tre geologi dalla Regione; alle sette e mezza del mattino dopo fu la volta dei tre autocarri, con un carico di 32 genieri della compagnia di stanza a Treviso.
E non finì lì, perché verso le sei del pomeriggio planarono con un elicottero, dal volo perentorio come un uccello del Fato, due paleo vulcanologi, esperti anche nei movimenti sismici connessi.

Il giorno dopo, all’alba, il convoglio dei genieri, con solerzia marziale, era già in marcia per l’altopiano, seguito però dal SUV di un Praloran, il quale certamente non avrebbe voluto sentir parlare di una sua latitanza in quel caso specifico. Era vestito per l’occasione con una fiammante mimetica presa dai cinesi la sera prima, ma era pure frastornato per l’inaudita alzataccia.
Arrivati sul pianoro fuori dal bosco, vi trovarono però già dieci carabinieri delle caserme di Vittorio e Farra d’Alpago. Insieme concordarono, seguendo la linea gerarchica, come mettere in opera gli ordini del comando regionale: bisognava inoltrarsi nella foresta verso nord, sino alle propaggini del Guslon e del Messer e perlustrare l’angusto fondovalle, perché una trentina d’anni prima da quelle parti si era registrato un fragore di quel genere, in ragione di una grossa frana venuta giù da uno dei rilievi.
L’avvio delle ricerche della spedizione militare, prima ancora che sul campo, aveva però prodotto un primo significativo risultato e cioè il disappunto, per non dire il livore invidioso dei tre geologi della Regione, i quali per primi avrebbero voluto, anzi dovuto giungere sul sito, fare i debiti rilievi e approntare le opportune ipotesi di intervento. Ragion per cui, venuti a conoscenza dal forestale Menegoni, vecchio conoscente di uno dei tre, della tempestiva azione dei militari, senza neanche avere il tempo di finire il bianchetto al bar Al Campanile, i tre ritennero necessario montare sulla Jeep e partire in missione, preparati a tutto, ma con l’unico trascurabile problema del non sapere esattamente dove andare.
Di fatti appena usciti da Vittorio, con un minimo di buon senso si persuasero che era inutile andare in giro per narcisi e radicchi selvatici e si risolsero a cercare l’ufficio tecnico del comune per consultare ben bene la mappatura orografica e geologica della zona.
Nel frattempo già alle nove e mezza i volontari della protezione civile avevano montato un piccolo campo fuori dalla cittadina lungo la riva del Meschio, con due tendoni e una tenda più piccola per l’ingegnere in comando,  approntando così un primo presidio per le finalità istituzionali cui erano preposti. Davanti ai tendoni avevano sistemato due tavolini da campo; ci avevano messo su la radio satellitare, due monitor, un enorme thermos di thè caldo, per ogni evenienza. L’ingegnere era già operativo, impegnato con la massima concentrazione a scrivere sul bloc-notes d’ordinanza qualcosa di fondamentale riguardo agli accadimenti recenti.
In due stavano ritti sul riposo davanti agli ingressi, con le braccia incrociate dietro la schiena, a fare bella mostra dei cappellini da missione e delle divise gialle, rigate sulle maniche e sul petto da grosse bande fosforescenti, neanche loro avendo la minima idea di cosa fare, ma neppure l’intenzione precisa di fare alcunché.
Verso mezzodì invece i bambini delle elementari all’uscita dalla scuola ebbero modo di salutare con le manine il decollo altero dell’Agusta coi vulcanologi in direzione nord-est. Venti minuti dopo gli scienziati erano atterrati su una vasta spianata, che si trovava già di là in Friuli, dove secondo studi e indagini satellitari assai complesse, doveva trovarsi la sede di un cratere vulcanico risalente addirittura al terziario, la cui subsidenza in linea di principio, come ipotesi teorica di studio s’intenda, poteva anche giustificare rimbombi o meglio echi vulcanici, assimilabili a quelli uditi.
Fecero dei piccoli saggi di scavo, asportando piccole quantità di terra e rocce, ma già dopo dieci minuti si accapigliavano appassionatamente sulla natura dei minerali, sulla classificazione del tipo di suolo e sull’esistenza stessa in quella zona di un paleo vulcano, motivo per cui non trovarono soluzione migliore se non quella di bussare alla porta di una vecchia malga lì vicina e chiedere all’anziano pastore che si era loro fatto innanzi se, a memoria sua, ricordasse di avere mai visto fenomeni eruttivi di qualunque entità o udito fragori maestosi in quel posto.
Nonno Michele, quando finalmente ebbe capito qual era la domanda e chi era chi gli e la poneva, rispose di si, che si ricordava benissimo, che doveva trattarsi del luglio o dell’agosto del '43 quando c’erano stati i bombardamenti americani da quelle parti, che la terra era diventata tutta quanta un fuoco e un tremore, dalla cima degli abeti fino all’abisso infuocato di Satanasso.

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