lunedì 7 marzo 2011

Emma Dante, tre occhiali da lontano



di Francesca Saieva
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Coppola aveva messo da parte i suoi barometri e affondando tutte e due le mani nelle tasche capaci del cappotto aveva incominciato a tirare fuori occhiali e occhialetti, disponendoli sul tavolo. «Sì, sì – occhiali – lenti mettere sul naso, ecco mii oci – bei oci!!» (E. T. A. Hoffmann, L’Orco insabbia in Romanzi e racconti, a cura di Carlo Pinelli, Einaudi, 1969)
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Ho appena letto Trilogia degli occhiali (Rizzoli 2011, e già sul palcoscenico) della giovane ed emergente regista e scrittrice palermitana Emma Dante. Nei tre spettacoli (Acquasanta; Il castello della Zisa e Ballarini), apparentemente slegati tra loro ma dall’unico filo rosso, ho colto alcune sfumature tematiche, incentrate sulla metafora degli occhiali, dell’Orco insabbia di un grande come Hoffmann, su una possibile chiave di lettura dell’unheimliche, il perturbante, presente e assente a un tempo in ciò che siamo soliti intendere come ‘visibile’, e su un legame (freudianamente inteso) tra la vista e la sessualità, qui sviscerato nell’interezza del testo.
Inforchiamo gli occhiali e la realtà esterna si rende visibile sensibilmente, togliamo gli occhiali e lo sguardo si estende verso l’infinito. Nello specchiamento attraverso le lenti, il contingente s’introietta a tal punto da rendere dapprima lo sguardo miope che, una volta all’ombra dei suoi riflessi scopre la ‘mostruosità’ del suo stato d’inquietudine immobile.
Sì, Trilogia degli occhiali è la trilogia dell’immobilismo segnato dal tempo. Il ricordo ne blocca l’azione pur divenendone promotore, in termini di ritorno al passato. E Spicchiato, Nicola e “il” (quest’ultimo nell'episodio Ballarini) sono tutti esempi ‘catatonici’ anche se l’automa evidente nel testo è soltanto Nicola (altro riferimento sfumato e similare a Hoffmann: la sua Olimpia, infatti, è l’automa-bambola senza occhi).
I personaggi, seppure con un differente grado di consapevolezza, rimangono chiusi nei ricordi di una ‘felicità’ (non del tutto consona a ciò che s’intende generalmente con questo termine) ormai lontana, ossessiva nella memoria e condizionante per un ipotetico ritorno alla vita. Una nave che ‘potrebbe’ ritornare nell’attesa del mare, il castello della Zisa per un affetto familiare, due vecchi bauli per l’amore di tutta una vita, sono le ancore dei personaggi attorno ai quali si muovono altre figure-burattino e bamboline, artefici di un mancato senso di ‘responsabilità’ (nel suo significato più pieno), esplicative di un mondo manovrato e mediocre, perché assente alla compartecipazione della sofferenza; un mondo solo anch’esso tra singole solitudini.
E i tre ‘reietti’(Spicchiato, Nicola e “il”) seguono il ritmo della colonna sonora della propria vita, sottofondo per la loro immobilità (momentaneamente riscattata) ogniqualvolta essa veda ‘l’invisibile’, quasi come dinamica di un sogno.
Il folklore del meridione e i colori locali riaffiorano soltanto nell’uso della lingua del sud. Ma il disagio e l’emarginazione, divenendo fulcro del testo (dove il ‘grottesco’ voluto, caricato di significato, crea un impatto forte e più crudo con la misera realtà umana), sono esenti da identità geografiche (mancano infatti le descrizioni dei luoghi, sostituite invece da scene da palcoscenico) e sono guidati da un universale senso di ‘predisposizione’ all’amore.
Semplice complessità per la citazione (collante alle tre storie), usata dalla Dante come epigrafe di Ballarini (terzo episodio), di Alda Merini: “So che un amore può diventare bianco come quando si vede un’alba che si credeva perduta”.







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