mercoledì 12 gennaio 2011

Relazione del prof. Costa alla "Commissione speciale per la Revisione e Attuazione dello statuto della Regione" (2° parte)


Continuiamo la pubblicazione integrale dell'interessantissima Relazione prodotta dal professor Costa e consegnata alla "Commissione speciale per la Revisione e Attuazione dello statuto della Regione". A seguire, la seconda parte di tale relazione (per leggere la nota del professor Costa e la prima parte della sua relazione, cercarle tra gli articoli pubblicati su PAlingenesi precedentemente).
Nei prossimi giorni sarà pubblicata l'ultima parte ("Considerazioni politiche ed istituzionali").

Relazione (parte II)

Motivazioni giuridiche

E, nel quadro della costituzione pattizia di cui sopra, trova origine appunto l’Alta Corte per la Regione Siciliana, la quale, proprio perché organo di formazione paritetica, era l’unico che avesse la forza di tenere fede al patto senza che questo potesse scadere in violazioni unilaterali.

La sua disattivazione unilaterale da parte dello Stato non appare fondata su motivazioni di tipo giuridico, bensí di tipo politico come si evidenzia dai seguenti elementi di fondo.

La questione, infatti, viene spesso liquidata sbrigativamente dicendo che le competenze dell’Alta Corte sono state assorbite da quelle della Corte Costituzionale a seguito di una sentenza, la n. 38 del 1957, che ha voluto inquadrare il funzionamento dell’Alta Corte come operante ai sensi della Disposizione Finale e Transitoria VII della nostra Costituzione.

L’argomentazione che qui viene posta si articola su due piani: uno “sostanziale” sulla validità dei presupposti e dei contenuti di quella sentenza, e uno “formale” sull’efficacia di una sentenza della Consulta nel poter modificare una norma di rango costituzionale. Le argomentazioni di sostanza, infatti, per quanto appaiano fortissime non sono mai risolutive in quanto rimandano ad una valutazione di opportunità che va sciolta soltanto sul piano politico. È sul piano della forma, invece, che la vicenda assume dei contorni oscuri e inaccettabili per la parte della Regione e dei cittadini italiani che essa rappresenta.

L’ordinamento giuridico italiano – come è noto – presenta una gerarchia delle fonti normative molto chiara, stabilita già esplicitamente nelle “Preleggi” al Codice Civile del 1942 e che pone, di massima, le “leggi” al di sopra dei “regolamenti” e queste al di sopra degli “usi”. A questa gerarchia fondamentale si sovrappongono altre disposizioni, ereditate dalla tradizione giuridica romanistica, secondo le quali le norme successive derogano a quelle precedenti, mentre quelle speciali derogano alle generali. Le successive giurisprudenza e dottrina hanno integrato questo dispositivo di massima per renderlo compatibile con le principali innovazioni sistematiche che l’ordinamento ha vissuto a partire da quella data. Già la presenza di “leggi generali” e “leggi speciali” e di “regolamenti generali” e “regolamenti speciali”, etc. complicava all’origine la semplicità della gerarchia poiché, se è vero che in via di principio per sua natura la norma speciale, ad ogni livello, deroga alla generale, è indubbiamente vero che, in quanto emetta principi generali implicitamente inderogabili, il rapporto potrebbe anche invertirsi. Le principali innovazioni con cui dovette confrontarsi l’ordinamento repubblicano sono state ad ogni modo le seguenti:

- l’introduzione di “leggi costituzionali” quali fonti di diritto sovraordinate rispetto alle stesse leggi, ora dette “ordinarie”;
- l’introduzione di “leggi regionali” negli ordinamenti delle regioni a statuto speciale o a statuto ordinario, con possibilità implicita di “conflitto di competenze” rispetto alla legge ordinaria statale;
- l’introduzione di normative europee di diversa denominazione che, dopo lunga storia che qui non mette conto richiamare, hanno avuto il rango di fonte normativa primaria che prevale su qualunque norma di diritto interno, anche costituzionale, a far data dall’1 gennaio 2010, data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

A parte quest’ultima “novità” che assume particolare rilievo di merito per la questione in oggetto rispetto a quando si decise la disattivazione dell’Alta Corte (non la soppressione, giacché essa non è stata mai formalmente soppressa), la principale innovazione resta la prima, voluta fortemente dai “padri costituenti” per evitare che la legge fondamentale della Repubblica, in quanto posta sullo stesso piano delle leggi ordinarie, potesse facilmente essere modificata, e quindi piegata a logiche autoritarie, come in effetti era avvenuto con lo Statuto Albertino del 1848 del Regno di Sardegna, poi esteso a legge costituzionale fondamentale del Regno d’Italia.

Poiché, però, le norme costituzionali non si risolvono unicamente in quelle contenute nel testo fondamentale della Costituzione della Repubblica Italiana, ma comprendono anche le norme costituzionali di altre leggi costituzionali, si è posto da subito il problema se, tra le stesse norme costituzionali, potesse pure porsi un ordine di norme, enucleandone alcune definibili quali Principi fondamentali, ovvero se tra di loro fossero tutte equiordinate, con il solo principio della prevalenza delle norme piú recenti e delle norme speciali di cui sopra si è detto, rispetto, rispettivamente, a quelle piú antiche e generali.

Seguendo il dettato letterale della stessa Costituzione, che antepone proprio i “Principi” alle stesse due maggiori “Parti” del Testo di legge, la giurisprudenza costituzionale, già dai tempi in cui era attiva l’Alta Corte, è stata a favore della prima interpretazione, sia pure non senza qualche esitazione iniziale. In maniera ambigua, infatti, la citata sentenza n. 38/1957 dapprima afferma che le leggi costituzionali degli Statuti speciali rappresentano fonti di diritto integralmente subordinate alla Costituzione, per poi rettificare che tale subordinazione si riferisce naturalmente soltanto ai principi fondamentali della stessa, poiché, in caso contrario, essi non potrebbero derogare in nulla dalle norme comuni e quindi la stessa autonomia speciale ne sarebbe risultata del tutto annullata.
Il punto è da tenere in particolar conto giacché, per definizione, una norma costituzionale non può mai essere incostituzionale, salvo che, appunto non violi altra norma costituzionale che abbia il rango riconosciuto di “principio fondamentale”. Tutta l’argomentazione sull’assorbimento delle funzioni dell’Alta Corte poggia infatti sul fatto che essa avrebbe violato uno di questi principi, peraltro neanche esplicitamente scritto nella fondamentale legge costituzionale del nostro paese, ma ricavato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, addirittura nella stessa sentenza che lo richiama, e che, richiamandolo, lo pone in essere, dando in tal modo alla Corte Costituzionale una funzione costituente che non le compete e con una autoreferenzialità che rende quanto meno fragile questa interpretazione; ma sul punto si tornerà piú avanti.

Il dettato dello Statuto, sebbene recepito da legge posteriore alla Costituzione, è formulato da legge anteriore (il R.D. del 1946) che, per le ragioni dette, aveva la forma di legge ordinaria, del resto come tale era pure la forma dello stesso Statuto Albertino. Sebbene, quindi, la giurisprudenza costituzionale successiva all’approvazione della Costituzione (già con la sentenza n. 4 del 1948 dell’Alta Corte) abbia riconosciuto allo stesso Statuto rango di norma costituzionale, sembrerebbe piana sia la possibilità di modificare tale norma con legge ordinaria (giacché, in breve, le norme costituzionali pre-repubblicane non avevano quella tutela che poi sarebbe stata accordata loro dalla Costituzione), sia perché il sindacato di costituzionalità in esso previsto sarebbe antecedenteall’approvazione della Costituzione e quindi necessariamente caducato nel momento in cui la Corte Costituzionale avesse cominciato ad operare, giusta previsione della Disposizione Transitoria e Finale VII della Costituzione nella sua formulazione originaria.

Tale interpretazione, su cui poggia ogni argomentazione sulla cessazione delle funzioni dell’Alta Corte, poggia però su un vizio insanabile: la norma, apparentemente “ordinaria” e “antecedente” rispetto alla Costituzione della Repubblica Italiana, è in realtà in maniera inoppugnabile tanto di rango “costituzionale” quanto “susseguente” all’approvazione della Costituzione Repubblicana medesima.
La Costituzione, infatti, approvata come è noto il 27 dicembre del 1947, indicava chiaramente in un’altra Disposizione Transitoria e Finale, la XVII, un termine perentorio per l’approvazione degli statuti speciali, i quali, come leggi costituzionali, erano da considerarsi veri e propri “allegati” inscindibili dalla medesima Costituzione di cui sono ad ogni effetto parte integrante. Se il legislatore costituente avesse voluto sí riconoscere rango costituzionale a tali Statuti ma non ne avesse voluto riconoscere la natura “costituente”, alla pari delle altre norme costituzionali, non si sarebbe premurato di incaricare la stessa Assemblea Costituente di provvedere alla loro emanazione ma ne avrebbe affidato l’istituzione ad un ordinario dibattito da svolgere nel corso delle successive legislature.

E la Costituente adempí effettivamente a questo obbligo costituzionale per quattro regioni su cinque. L’unica esclusione, quella del Friuli-Venezia Giulia, fu dovuta ad una condizione di fatto – lo status incerto della città di Trieste – che impediva di definire persino i confini di quella regione. Questa eccezione sarebbe stata sanata perciò solo nel 1966, successivamente agli accordi tra Italia e Jugoslavia. Per il resto l’Assemblea Costituente rispettò l’adempimento con meno di un mese di ritardo rispetto al termine previsto del 31 gennaio 1948 per procedere all’approvazione degli Statuti speciali in parola.

Per quanto riguarda in particolare la Sicilia tale adempimento fu realizzato con la legge costituzionale n. 2 del 1948. Questa fu preceduta da un ampio dibattito parlamentare in cui proprio le funzioni dell’Alta Corte furono oggetto di proposte di emendamento e finanche di abolizione, e tuttavia prevalse la volontà del legislatore costituente di recepire cosí com’era il testo dello Statuto medesimo, inclusa quindi la presenza dell’Alta Corte.
L’Alta Corte per la Regione Siciliana in quel momento era già stata formalmente costituita, sebbene non ancora operante sol perché il Presidente eletto, Ivanoe Bonomi, aveva rinunciato alla carica e si doveva quindi procedere a nuove elezioni, oltre che già istituita ai sensi della pregressa norma costituzionale, ma – da quel momento – continuò quindi a funzionare ai sensi della nuova norma costituzionale, la L.Cost. n. 2 del 1948, a tutti gli effetti successiva e nonprecedente all’approvazione della Costituzione medesima.
Ciò basterebbe a chiudere ogni aspetto della questione, ma si vogliono argomentare comunque alcuni aspetti che hanno consentito, con alcuni artifici retorici, di sostenere che comunque si trattava di norma costituzionale “pregressa” e quindi caducabile nella parte in cui regolava il sindacato di costituzionalità.

Intanto la legge costituzionale in parola non istituiva ma riconosceva un ordinamento statutario già esistente, come recita lo stesso titolo della Legge: “Conversione in Legge costituzionale dello Statuto speciale della Regione Siciliana”. Ciò, a nostro avviso, non indebolisce ma rafforza il dettato dello Statuto. La Repubblica, infatti, riconosceva in tal modo il patto costituzionale che la Sicilia, per mezzo della sua Consulta, aveva fatto con lo Stato e quindi con il resto del Paese. Dando sanzione costituzionale a quel patto non poteva dare alla Sicilia certo minor potere decisionale di quello che l’art. 123 stabilisce per tutte le Regioni italiane, anche ordinarie, nel decidere sul proprio statuto nei limiti dell’ordinamento costituzionale. Il vincolo, per la Sicilia come per le altre regioni a statuto speciale, di non valicare i principi fondamentali della Costituzione e non piú la Costituzione, comporta anche l’approvazione dello Statuto e delle sue modifiche da parte dello Stato, ma certo non mai la sua disponibilità unilaterale da parte dello Stato che porrebbe le suddette regioni persino su di un piano di minorità rispetto alle stesse regioni a statuto ordinario. Il fatto – in sintesi – che la legge non abbia istituito ma riconosciuto l’Autonomia della Sicilia ne rafforza soltanto l’impianto democratico.

Poi la legge costituzionale, nel riconoscere tale Statuto, non rielencava articolo per articolo il suo dispositivo, ma lo richiamava in blocco. Tale “fatto” non può essere addotto per ipotizzare un mancato coordinamento tra Costituzione e Statuto giacché i rinvii di norma hanno la stessa efficacia sia che siano espliciti sia che siano impliciti. Quando la norma dice che “Lo Statuto … fa parte delle leggi costituzionali della Repubblica” è impossibile ipotizzare riserve implicite su questa o quella disposizione, soprattutto quando su quelle in parola il dibattito assembleare c’è stato ed è risultato favorevole all’impianto originario dello Statuto. Tra gli interventi favorevoli al mantenimento dell’Alta Corte vi fu quello autorevolissimo di Gaspare Ambrosini, il quale un giorno sarebbe diventato giudice della stessa Corte, poi giudice costituzionale, infine Presidente della Consulta dal 1962 al 1967. Sebbene lo stesso Ambrosini fosse giudice costituzionale ai tempi della famosa sentenza del 1957 vi è da ricordare che egli non prese parte al blitz di altri giudici costituzionali del 3 aprile 1957 di cui diremo appresso e probabilmente dovette subire una decisione collegiale che peraltro restava ambigua sulle potestà residue dell’Alta Corte; e infatti per tutto il tempo della sua Presidenza la questione dell’Alta Corte restò praticamente in sospeso essendo la sentenza che la “sopprimerebbe” in via definitiva soltanto del 1970.

Ad ogni modo il legislatore, nel febbraio del 1948, fece inequivocabilmente la scelta di mantenere l’Alta Corte senza alcuna indicazione che tale scelta si sarebbe dovuta intendere come provvisoria.

È vero che un’altra norma, contenuta nel 2° comma dell’art. 1 della legge costituzionale in parola, consentiva allo Stato di modificare con legge ordinaria, udita l’Assemblea Regionale, entro due anni le norme che riteneva necessario modificare. Ma tale norma, impugnata davanti all’Alta Corte dalla Regione, fu caducata e nessuna revisione fu fatta in tal guisa. La sentenza, sulla quale torneremo, dell’Alta Corte, nel riconoscere l’incostituzionalità di questa disposizione, non faceva cenno sul fatto, di seguito sostenuto, che tra Statuto e Costituzione non ci sarebbe stato il dovuto coordinamento. Essa stabiliva semplicemente che la norma statutaria siciliana, al pari di tutte le altre norme costituzionali, poteva e doveva essere modificata secondo le procedure ordinarie previste dall’art. 138 (che a nostro avviso, comunque, si intrecciano con l’autodichìa prevista dall’art.123 per le Regioni a statuto ordinario e comunque con l’origine pattizia del medesimo Statuto siciliano, ma tale questione non è certo qui di primaria importanza).

La tesi bizzarra che lo Statuto siciliano si possa modificare per semplici sentenze e non per mezzo di leggi costituzionali o che sia uno “Statuto non coordinato” e, in specie, che non sia coordinato proprio sulle norme relative all’Alta Corte, non trovano quindi alcun fondamento nei testi di legge né nei principi generali del nostro ordinamento. Sulle conseguenze devastanti (per l’Autonomia siciliana) dell’interpretazione secondo cui il “coordinamento” non ci sarebbe e si potrebbe garantire solo a “colpi di sentenze” della Corte Costituzionale torneremo piú avanti. Qui si noti come questi “colpi” assumono nel tempo sempre maggiore arroganza istituzionale fino a diventare veri “colpi di piccone” sostanzialmente demolitori dell’impianto originario e in nessun modo lealmente orientati al presunto coordinamento in parola.
Si è detto di questa sentenza dell’Alta Corte, la n. 4 del 1948 che annullò quel comma che avrebbe consentito allo Stato italiano di sopprimere immediatamente con una mano ciò che aveva appena concesso con l’altra dopo dura lotta da parte dei Siciliani tutti. Quella sentenza, però, affermo anche alcuni altri importantissimi principi dell’Autonomia Siciliana che, pur’essi, restano violati da piú di mezzo secolo e che invece è opportuno adesso richiamare.

Afferma l’Alta Corte intanto che la pretesa incompetenza della stessa perché materia riservata alla Corte Costituzionale è infondata! L’Alta Corte non decide su materia riservata alla Corte Costituzionale perché ad essa è riservato il giudizio di costituzionalità di tutte le norme, anche di quelle statali, che si applicano nel territorio della Regione. E quindi nega la transitorietà della propria istituzione.

L’Alta Corte, nel caducare il 2° comma dell’art. 1 della L. Cost. n. 2/1948, non indica come avrebbe fatto la successiva giurisprudenza costituzionale, comeincompiuto il coordinamento tra Stato e Regione nel nostro diritto costituzionale. L’ordinamento regionale è, per essa, una “situazione politicamente e giuridicamente già definita”. Afferma che sono possibili revisioni, ma che queste devono seguire l’ordinaria procedura costituzionale prevista dall’art. 138 senza le “scorciatoie” giurisprudenziali che si sono invece volute illegittimamente seguire.

L’Alta Corte afferma che l’Autonomia ”tutta speciale” dà alla Sicilia “materie attinenti alla sovranità” che è affermazione fortissima, anche con riferimento alle altre autonomie speciali.

Il primo punto è della massima importanza. Volendo anche accettare il principio di “unità di giurisprudenza costituzionale” quale principio fondamentale della Costituzione, benché implicito, esso non è affatto violato dalla presenza dell’Alta Corte per la Regione Siciliana. La “duplicità” di giurisprudenza costituzionale si avrebbe infatti qualora sulla stessa norma fossero possibili sindacati diversi di costituzionalità, potenzialmente in conflitto tra loro. Tale conflitto è però impossibile giacché le due corti hanno confini per materia e per area geografica nettamente separati dal dettato costituzionale. L’Alta Corte giudica infatti della costituzionalità delle norme regionali, cosí come delle norme statali, ma di queste ultime soltanto nei limiti della loro applicabilità nel territorio della Regione Siciliana. In altre parole la valutazione di costituzionalità sulle norme regionali è sí generale, ma sulle stesse non si estende quella della Corte Costituzionale che, in quanto foro non competente, non può ritenere disattesa la propria giurisprudenza. Sulle norme statali – è vero – oltre a dirimere la materia relativa ai conflitti di competenza, l’Alta Corte potrebbe essere chiamata a valutare la complessiva costituzionalità, ad esempio in quanto ad aderenza alla Parte I della Costituzione della Repubblica; ma, in questo piú limitato ambito, essa sarebbe in ogni caso subordinata alla giurisprudenza della Consulta. In altre parole l’Alta Corte non giudica – il che sarebbe gravissimo, ma non è – sulla complessiva costituzionalità delle leggi dello Stato, se non incidentalmente e comunque in assenza di esplicita giurisprudenza della Consulta come era sino al 1956, ma essenzialmente solo sulla loro applicabilità nel territorio della Regione siciliana e nulla più.

È vero che ciò dà vita ad un ordinamento costituzionale particolarmente complesso, la cui unità è garantita essenzialmente dalla Prima Parte e dai Principi fondamentali della Costituzione, oltre che dalla nomina parlamentare di parte dell’Alta Corte per la Regione Siciliana. Ciò dà vita – è vero – ad una forma costituzionale di autonomia davvero caratterizzata da eccezionalità. Ma l’eccezionalità sposta la questione dal piano giuridico a quello dell’opportunità politica; ciò per cui si deve rinviare al punto successivo di questa stessa relazione. Sul piano giuridico – che è quel che qui si vuole primariamente evidenziare – ciò non costituisce nulla di insostenibile né pregiudizio all’unità politica dello Stato, come in effetti non lo è stato negli anni in cui, dal 1948 al 1957, effettivamente la Sicilia ha potuto disporre del suo foro costituzionale speciale. La stessa pretesa “incostituzionalità” (nel senso debole di contrarietà ai principi fondamentali della Costituzionali) dovrebbe essere sancita dalla Corte competente, la medesima Alta Corte quindi, come riconobbe lo stesso Presidente Gronchi nel suo celebre comunicato alla Camera del 3 aprile 1957 in cui invita a soprassederemomentaneamente alla nomina dei giudici dell’Alta Corte. Non basta quindi una sentenza della Corte Costituzionale quando, anche in presenza di una sentenza dell’Alta Corte che asseverasse questa posizione, sarebbe necessaria una legge costituzionale di revisione dello Statuto perché si possa procedere alla modifica dell’ordinamento vigente.

Rispetto a questo ordinamento costituzionale vigente e vivente si delinea una prima deviazione gravissima con una legge ordinaria, la n. 87 del 1953. Quest’ultima, incredibilmente e forse colpevolmente non impugnata dalla Regione, dispone ambiguamente che “ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo Statuto speciale della Regione Siciliana” si consente al Governo comunque il ricorso diretto alla Corte Costituzionale per i conflitti di competenza. Ora questa legge non solo è apertamente incostituzionale in quanto viola l’ordinamento speciale della Sicilia e la stessa citata sentenza dell’Alta Corte – ciò che con legge ordinaria non si poteva affatto fare – ma, di piú, introduce un elemento di confusione che rende poi plausibile la successiva sentenza della Corte Costituzionale che avoca a sé ogni competenza dell’Alta Corte siciliana.

Infatti l’impianto originario è chiarissimo e – come detto sopra – non creava doppie competenze: tutte le norme che si applicano in Sicilia, qualunque ne sia la fonte di produzione, statale o regionale, sono soggette al sindacato speciale dell’Alta Corte, tutte le altre sono soggette al sindacato generale della Corte Costituzionale. Nel momento in cui, sulle leggi statali che si applicano in Sicilia, s’introduce una competenza della Corte Costituzionale, sebbene solo per i conflitti di competenza, senza però toglierla all’Alta Corte, si viene a creare una mostruosità giuridica per la presenza di atti soggetti al giudizio di due corti costituzionali che potrebbero ora confliggere tra di loro.
Ora, se si è sempre detto che il mancato rinnovo dei componenti dell’Alta Cortetrovava il proprio fondamento tutto sulla sentenza n. 38/1957 vi è da richiamare in sintesi che:

- quella sentenza si fondava a sua volta sulla predetta legge ordinaria n.87 del 1953, che consentiva al Governo un ricorso diretto alla stessa e non all’Alta Corte; essendo tale legge, per le ragioni viste, incostituzionale e addirittura contraddittoria, nel voler attribuire su una medesima legge la competenza a due corti costituzionali, il ricorso su di essa fondato diventa nullo, e, con esso, tutta la giurisprudenza costituzionale che sullo stesso si è fondata;
- la competenza a dirimere i conflitti tra Stato e Regione è attribuita alla Corte Costituzionale … dalla medesima sentenza, creando un presupposto paradossale, e cioè che la Corte Costituzionale non derivi dalla Legge le proprie competenze, in particolare dalla Costituzione, ma dalla propria stessa giurisprudenza, il che è manifestamente contrario al principio supremo della legalità per il quale il potere di un giudice, di qualunque giudice, nasce unicamente dalla legge che lo istituisce e non dal suo stesso giudizio;
- la sentenza in parola, poi, entra in contraddizione con se stessa, affermando dapprima che gli statuti speciali sono fonte del diritto subordinata alla Costituzione, e poi, piú correttamente, aggiustando il tiro e sostenendo che sono pari alle disposizioni di diritto comune, cui possono ovviamente derogare, ma subordinati ai soli principi fondamentali della Costituzione medesima, forse avvedendosi che nella prima formulazione gli statuti speciali sarebbero restati tutti lettera morta;
- infine, non trovando scritto da nessuna parte un principio fondamentale che neghi il sindacato speciale dell’Alta Corte, lo producono all’uopo gli stessi giudici costituzionali: l’unicità della giurisprudenza costituzionale;
- nel far questo, inoltre, sembrano non accorgersi che, per ambito territoriale, tale unicità era comunque garantita: per lo stato italiano la Corte Costituzionale, nel territorio della Regione Siciliana, per effetto del suddetto “patto” tra Sicilia e Stato, l’Alta Corte che era ed è paritetica alla Corte e quindi sovrana nei suoi piú ristretti ambiti: nessuna doppia giurisprudenza è cosí possibile prima della confusa legge del 1953;
- e infine la sentenza, per quanto autorevole, non fu nemmeno immediatamente e automaticamente efficace: per qualche tempo le due corti comunque teoricamente erano convissute e la soppressione dell’Alta Corte non fu diretto effetto di quella sentenza, bensí di una manovra politica complessa ben precisa, ottenuta mediante la nomina a giudice costituzionale dei giudici dell’Alta Corte di nomina statale, successivamente la pronuncia sull’incompatibilità tra le due cariche e infine mediante il mancato rinnovo dei giudici in scadenza; si trattò quindi di una soppressione de facto, senza le garanzie del dibattito parlamentare e delle procedure di revisione costituzionale che sarebbero state comunque necessarie.

Non ci si sofferma invece sulla seconda sentenza che cancellerebbe le altre competenze dell’Alta Corte, quella del 1970, perché essa va semplicemente iscritta in tutta quella giurisprudenza abrogativa della Corte Costituzionale nei confronti dell’Autonomia siciliana che è stata la migliore dimostrazione, ormai storica, della parzialità di quel foro e della sua strutturale inadeguatezza nel tutelare un’autonomia cosí peculiare come quella che il Popolo Siciliano si era conquistato all’indomani del secondo conflitto mondiale. Si avvisa appena che essa si fonda tutta sulla necessità di non sconfessare la precedente e sullaeccezionalità delle norme in parola, quasi che questa da sola potesse costituire motivo di abrogazione, tanto piú nelle inaccettabili forme in cui ciò è avvenuto.

Come si è detto sulle ragioni di opportunità politica e istituzionale si dirà di seguito. Qui si vuole rappresentare come, nei giorni, mesi ed anni successivi a quella sentenza, l’Alta Corte ha continuato ad esistere come istituzione sebbene non piú operante nella pratica.
Il Presidente della Camera allora in carica, l’On. Giovanni Leone, il 22 marzo 1957, ben oltre quindi il deposito in cancelleria della sentenza della Corte Costituzionale n. 38 del 1957, avvenuta il 9 marzo dello stesso anno, annuncia la convocazione del Parlamento in seduta comune, di concerto con il Presidente del Senato Cesare Merzagora, per la seduta pomeridiana del 4 aprile del 1957 al fine di nominare un giudice effettivo ed uno supplente da rinnovare nell’Alta Corte per la Regione Siciliana.

A questo punto avviene un fatto che ha dell’incredibile. Quattro giudici costituzionali, a titolo personale e non come espressione del foro giudicante, chiedono udienza al Presidente della Camera il giorno prima della riunione del Parlamento (i giudici Azzariti, Perassi, Bracci e Cassandro). Nei documenti dell’epoca risulta che gli stessi avessero espresso al Presidente della Camera la loro “preoccupazione” che si potesse delineare un conflitto che avrebbe causato “eccezionale pregiudizio per le istituzioni”. Non escludendo, prudentemente, i giudici che fosse possibile un coordinamento tra le due corti, invitavano piuttosto il Presidente ad accelerare il dibattito sulle leggi costituzionali che sulla materia erano state presentate e, nel frattempo, chiedevano che non procedesse alle suddette nomine.

È evidente che il Presidente Leone volesse mantenere la propria funzione di garanzia e che, persino i giudici costituzionali personalmente piú avversi all’Alta Corte, ritenessero ineludibile un passaggio parlamentare per la modifica costituzionale in parola. È evidente altresí che il suddetto blitz non sia bastato se, poche ore dopo, è lo stesso Presidente della Repubblica Gronchi che emette un lungo comunicato stampa in cui, sostanzialmente, sposa le teorie dei giudici costituzionali. Ma – anche questo è importante – lo stesso Gronchi in nessuna parte parla ufficialmente di abolizione dell’Alta Corte, peraltro in maniera semplicemente giurisprudenziale. Ciò a cui Gronchi invita è niente piú che una pausa di riflessione in attesa che il Parlamento abbia deciso quale dovesse essere l’orientamento da preferire.

Si riporta la proposizione conclusiva della sua lunga nota con alcuni nostri corsivi:
«Nelle presenti condizioni per le considerazioni e le perplessità a cui esse inducono, riterrei che un rinvio della seduta comune indetta per domani consentirebbe quel piú approfondito esame della questione della quale ho cercato qui, per parte mia, di esporre, sia pure sommariamente, gli elementi e i dati fondamentali.»

A seguito di questa incredibile pressione, dietro la quale stavano motivi di sostanza che saranno richiamati al prossimo punto, il Presidente della Camera, nella stessa seduta pomeridiana, comunicava che, di concerto con il Presidente del Senato, non avrebbe dato corso alla seduta comune in parola.

Non mette conto dire che i progetti di riforma costituzionale andarono scemando a poco a poco sino a che, sedata la “rivolta autonomista” del Governo Milazzo nel 1960, non uscirono definitivamente dall’agenda politica attiva. Inutilmente il Presidente della Regione a questi precedente, Giuseppe La Loggia, aveva rassicurato l’Assemblea Regionale sul sicuro esito positivo della vicenda. Inutilmente i “Padri dell’Autonomia”, Alessi e Aldisio in primo piano, perorarono la causa in Parlamento e fuori, lamentando le disposizioni illegittime del Ministero degli Interni che nel frattempo vietavano al Commissario dello Stato di indirizzare i ricorsi all’Alta Corte; la loro voce, che era stata utilissima nel Dopoguerra per fermare la deriva separatista della Sicilia che in qualche momento sarebbe sembrata inevitabile, ora veniva irrisa e isolata, come quella di coloro ai quali non c’è piú nulla da chiedere e che abbiano esaurito il loro ruolo politico nella “normalizzazione” dell’Isola.
Le proposte di leggi costituzionali si sarebbero però ripresentate costantemente nel tempo, cosí come i sommessi inviti ai Presidenti della Camera o dell’Assemblea Regionale di rimettere in agenda ciò che non ne sarebbe mai dovuto e potuto uscire; e questo in ogni decade, come una sorta di fiume carsico, talvolta nella formula interessante della proposta di “Sezione separata della Corte Costituzionale”. Ma sempre senza esito sostanziale alcuno.

L’ultima proposta di riforma integrale dello Statuto, sono trascorsi appena alcuni anni, riformulava nella sua integrità la presenza e l’operatività dell’Alta Corte, ma essa decadde non per questo aspetto bensí per altri di natura finanziaria, una volta approdata al Parlamento della Repubblica.

L’Alta Corte, per citare il compianto primo Presidente della Regione Giuseppe Alessi, giace ancora oggi quindi “sepolta viva”.

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