sabato 29 gennaio 2011

L'inquilino

estratti dal romanzo di Daniela Palumbo
pagg 44-45


In questo cortile interno, al riparo dalla strada principale, il tempo si è fermato.
Mi basta chiudere gli occhi per rivedermi quaggiù, solo o con altri ragazzi come me, a lanciare palloni.
Spesso approfittavo di qualsiasi pausa o attimo di distrazione per alzare lo sguardo fino all'appartamento di Maddalena; altre volte, preso dal gioco, me ne dimenticavo.
Qualche altra volta, invece, gli acuti emessi dal professore contro di lei, o contro qualcuno dei suoi figli, mi riportavano di colpo alla realtà. E mi ferivano, come fossero stati scaraventati contro di me, me soltanto.
Quel pomeriggio, ricordo, mia madre era uscita presto per andare dal dottore.
Anche se, stranamente, non ne avevo molta voglia, vedendo gli altri ragazzi del condominio riuniti di sotto, scesi a giocare.
Non mi sentivo bene, quel giorno, e anche in quell'occasione subito me ne accorsi. Non riuscivo a "scattare" com'ero solito fare dopo il lancio di un compagno, e volendo forzare a tutti i costi a un certo punto non mi sentii le gambe.
Caddi piuttosto male, procurandomi delle ferite sul viso, dentro la bocca riconoscevo il sapore del mio sangue. Non ricordo se mi lasciai sfuggire un grido di dolore o solo qualche lamento.
Lei s'accorse di me, dalla veranda del suo primo piano, dove andava e veniva già da qualche minuto sporgendo e rientrando le braccia per stendere della biancheria. Fu allora che mi notò.
"Che ti sei fatto, Roberto? Tua madre non c'è? Vieni su che ti lavo la ferita, vieni da me, sali!"
Il portinaio, vedendomi tornare quasi di corsa, con la faccia sporca di terra e di sangue, e col respiro un po' affannoso, ebbe un sussulto di sorpresa e timore: "Che hai fatto?".
Io non mi fermai a rispondere, ero ancora spaventato per la caduta, e imbarazzato per il fatto di dovermi presentare così di fronte a lei.
Quando mi vide arrivare sulla soglia di casa, mi venne incontro e subito mi condusse dentro al bagno di servizio. Aprì il rubinetto dell'acqua fredda, poi mi lavò il viso, tenendomi la fronte per non bagnarmi i capelli, come si farebbe con un bambino. Mi disinfettò le ferite con dell'alcol, sul naso, su uno zigomo e intorno al labbro superiore. Io non sentivo nulla, a parte il mio crescente turbamento, ma di questo lei sembrò non accorgersi.
Quando ebbe finito, disse che avevo gli occhi lucidi. Avvicinò il suo viso al mio, e io istintivamente indietreggiai. Allora, con un gesto deciso della mano mi prese la testa e in meno di un attimo mi trasse a sé, quindi poggiò le labbra sulla pelle ancora accaldata della mia fronte, come a sentirmi la febbre.
"Aspetta qui. Vado a cercarti del ghiaccio."
Nei gesti di lei percepivo qualcosa di istintivo e materno e, al tempo stesso, di vagamente infantile.
In quei momenti mi scordai completamente di mia madre: del suo appuntamento col medico, atteso e temuto da giorni, del suo disagio misto a preoccupazione per quella visita al seno. Nei giorni che seguirono me ne vergognai.
La bambina tornò a casa insieme coi fratelli intorno alle sette di sera, e corse ad abbracciare la mamma. Poco dopo rincasò pure il professore. Maddalena lo vide spuntare sulla porta e accennò qualche vocabolo appena comprensibile per giustificare la mia presenza lì a quell'ora.
Lui si mostrò esageratamente gentile, quasi premuroso nei miei confronti, e quando feci per andarmene insistette perché mi fermassi a cena con loro.
"Salirò io ad avvertire tua madre, l'ho vista prendere l'ascensore poco fa. Tu mettiti pure comodo, i ragazzi aiuteranno ad apparecchiare."
Avrei voluto dire di no, rifiutare l'invito. Tornare su da me, tra le mie cose, ritrovare mia madre. Ma non osai.
Notai che aveva indosso il solito vestito scuro, e la cravatta impeccabile, come sempre bene annodata al collo. Era come se portasse una divisa, fuori e dentro i locali della scuola.
Quella sera, nell'intimo della propria casa, lo vidi per la prima volta togliersi la giacca, quindi mi apparve in maniche di camicia e pantaloni, questi tirati su fino all'altezza del torace da due bretelle troppo vistose.
A tavola, parlammo a lungo di alcune città del Veneto, terra d'origine mia e di mia madre. Lui non esitò a fare paragoni tra i comportamenti civili dei "cittadini del Nord" e la condotta disdicevole di molti palermitani. Poi, additandomi come esempio, prese a elogiare il mio contegno in ogni occasione "degno di lode". Guardandomi negli occhi, di tanto in tanto, come a volere sorprendere qualche improvviso rossore.
Si alzò, con l'intenzione di prendere dell'altro pane per me e una bottiglia d'acqua frizzante.
La piccola Irene con due ditini tirò fuori dalla bocca un pezzetto di carne che da qualche minuto continuava a masticare senza mai riuscire a ingoiarlo. Nel breve intervallo di quegli attimi, come un nuotatore in apnea che riemerga a prendere respiro, lanciò uno sguardo supplichevole a cercare quello della madre. La quale, a sua volta, teneva d'occhio il marito.
Essendo questi voltato di spalle e intento a fare altro, nel giro di pochi secondi lei afferrava e nascondeva il boccone dentro al pugno chiuso, quindi lo infilava come nulla fosse nella tasca davanti della sua vestaglia a fiori. Rapidamente. Il tempo d'un sospiro.
Riprese posto a capotavola, facendo bene aderire la schiena alla spalliera della sedia, il professore.
Ciascuno fece finta di niente. La conversazione continuò da dove s'era interrotta: ciascuno a turno commentava la gita al teatro greco di Siracusa organizzata dalla scuola.
Io rimasi silenzioso, ammutolito, unico e solo a non intervenire su quello o altri argomenti, seppure sollecitato a più riprese.
Semplicemente, non riuscivo: era come se i lembi sfilacciati dei miei pensieri informi, tramutati in confuse poltiglie di parole, si accumulassero, respingendosi l'un l'altro, ai lati delle guance e dappertutto all'interno della mia bocca, e dalla punta della mia lingua fino quasi all'inizio della gola. Destinati a restarvi prigionieri, senza poterne venire fuori.
Quella sera stessa sognai lei, Maddalena. E poi, di seguito a quella, molte altre notti ancora.
I sogni tradivano le mie fantasie di ragazzo, i desideri più nascosti del mio animo giovane.
Una notte mi apparve seduta al tavolo del mio soggiorno, con i capelli sciolti e la vestaglia a fiori incrociata sul seno, mentre sbriciolava un pezzetto di pane bianco tra le dita.
Mio padre morto era presente insieme a noi nella stanza, sprofondato sulla poltrona in pelle di fronte allo scrittoio del nonno, dove a me non era permesso sedere.
Scorsi il viso di lei, improvvisamente rigato di lacrime. Nonostante gli occhi apparissero perfettamente asciutti, e lo sguardo sereno. Sembrava non vedermi, sebbene io fossi molto vicino a lei. E a me pareva distante, "intoccabile" come dietro a una teca di vetro.
Mi svegliai pronunciando più volte il suo nome, e immediatamente dopo, queste parole che ancora ricordo: "...ora ti vengo a prendere, e ti porto via."

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