giovedì 13 gennaio 2011

L'inquilino

estratti dal romanzo omonimo di Daniela Palumbo
pagg 1-3
Mio padre è morto un venticinque aprile. Solo, come era sempre stato. Quasi sempre. Lontano da tutti noi.
Ricordo che quella mattina venne a prendermi Marco, mio fratello, con la sua auto, a casa di mia madre dove io abitavo ancora. Ricordo che fosse una giornata calda, quasi estiva, la strada correva sotto di noi, o piuttosto insieme a noi, la striscia bianca sull’asfalto si srotolava come un gomitolo che qualcuno avesse lasciato scivolare per terra, trattenendo tra le dita l’estremità del filo.
“Mi hanno chiamato un’ora fa dall’ospedale del paese, forse un’infermiera. Mi hanno lasciato intendere che fosse grave.” La voce di Marco suonava cupa e profonda, come sempre quando accade nella nostra famiglia qualcosa di insolito, di minaccioso. “Non so se arriveremo in tempo…” Eppure c’era in quel tono pacato, nel ritmo lento che scandiva le parole, qualcosa di rasserenante. Di sereno.
Quello che non ricordo, o che ricordo solo vagamente, è lo stato d’animo con cui intrapresi quella partenza inaspettata. All’epoca ogni mio spostamento, breve o lungo che fosse, risultava più subìto che scelto, e più desiderato che subìto: una fuga momentanea, un’evasione dal quotidiano, alla fine sempre piacevole, sempre bene accolta.
Non ero particolarmente turbata o angosciata, nemmeno ansiosa di arrivare “in tempo”. In tempo per cosa? Per dire addio a una persona cara in partenza per un lungo viaggio,  per dare soccorso ad un familiare bisognoso di aiuto, o semplicemente per fermarlo, il tempo, per mutare il corso del destino…
L’idea della morte, quella vera, mi appariva estranea, così come mi era sconosciuta la paura, e con essa, e ancor di più, la consapevolezza che questa si potesse alleviare col conforto della sola presenza.
In tempo. Per fare cosa? Per riconoscere un padre in realtà mai conosciuto? Per consolare, nel momento estremo, un essere sempre temuto, fuggito, negato?
“Quando, giorni fa, ho chiesto di poter trascorrere qualche ora con la mia bambina, mi è stato riferito che questa rifiutasse d’incontrarmi per “paura” di me. Paura… E chi sarei io? L’orco delle fiabe? È dunque così che quella donna impunemente mi dipinge agli occhi innocenti della propria figlia?”
Recitava più o meno così una delle tante lettere, di tono polemico o amareggiato, scritte da lui, mio padre, nei primi anni della separazione. Da “quella donna”, mia madre naturalmente, e da noi figli. Lettere lunghe, lettere troppo forbite, nel linguaggio come nella grafia. Come i “due” che egli usava “ricamare” sul retro dei temi di generazioni di alunni, i cui riccioli vezzosi, le cui curve ammiccanti parevano beffarsi del giudizio rigoroso.

Un orco sì, me lo figuravo pressappoco così da bambina, anche se lo sapevo piccolo di statura. Un ometto striminzito e mingherlino, potente solo nella voce, amplificato dalle sue stesse urla e minacce. Ora quella voce taceva, taceva per sempre: solo un corpo minuto, magro e legnoso, sotto il mio sguardo di fanciulla ormai cresciuta, trasportata quasi come in sogno, come trascinata dal vento dell’Ovest, in una realtà che non mi apparteneva e di cui mi sentivo in quel momento visitatrice e insieme prigioniera. Avrei voluto che qualcuno mi svegliasse. E mi riportasse a casa.

Giunti all’ospedale di Paternò, in tarda mattinata, due personaggi ugualmente ambigui e sinistri ci accolsero. In primo luogo il medico che era stato presente al ricovero, appena il giorno prima del decesso. Ci salutò cordialmente e ci intrattenne qualche minuto nel suo studio, snocciolando formule di rito coniate apposta per simili occasioni: “Abbiamo fatto tutto il possibile” e ancora “Vi abbiamo avvertiti immediatamente non appena vostro padre si è aggravato”. L’altro, il responsabile di un’agenzia funebre locale di cui ricordo i baffi sinuosi, la presenza goffa e invadente, lo sguardo lievemente imbarazzato, semplicemente faceva il suo mestiere: un commerciante degli addii, acconciatore del lutto e del vuoto improvviso. Niente di più.  Né l’uno né l’altro seppero offrirci una spiegazione, una pallida giustificazione se non alla morte imprevista e improvvisa, almeno alla condizione di solitudine e di miseria in cui quella morte si era consumata.
D’altra parte, nessuno dei due ne era né se ne sentiva in alcun modo responsabile: cosa ci si dovrebbe aspettare da un ambiente estraneo, da persone “non di famiglia” nei confronti di un vecchio abbandonato a se stesso dai propri consanguinei, dai suoi stessi figli?
Facili conclusioni, facili sentenze. E assoluzione piena per chiunque altro fosse entrato a far parte di quella vicenda, vi fosse comparso o vi avesse recitato. Medici, infermieri e becchini compresi.

Negli scantinati dell’ospedale era stata adibita, o meglio, improvvisata, una camera ardente. Macabra, più di quanto le scene e i rituali del  lutto non siano soliti evocare alla memoria.
M’immagino ancora la confusione polverosa di quella sala, tipica dei locali di sgombero, con gli assi di legno appoggiati alle pareti, le serrande scese a metà e il pulviscolo aleggiante nella penombra. Al centro solo un letto, ovvero “il letto”, probabilmente sottratto d’urgenza alla corsia. Mio padre vi era disteso sulla schiena, gli occhi aperti dietro alle piccole lenti, le labbra schiuse come in un’esclamazione di sorpresa. Indossava un pigiama a righe bianche e azzurre, e aveva i piedi nudi.
Non ricordo il momento esatto in cui ci raggiunse mia sorella Erminia, non ricordo il suo ingresso in quella stanza. Per la prima volta in vita sua aveva scelto l’aereo, il mezzo più rapido per unirsi a noi, superando l’angoscia di dover volare. Da Torino a Palermo in meno di due ore. E nonostante questo, non riesco a ricordare il momento preciso in cui lei comparve sulla porta, non saprei dire che ora fosse.
Ad ogni modo, tutte le volte che mi raffiguro la scena della camera mortuaria in ospedale, quando per la prima volta ci fu mostrato il cadavere di nostro padre, vedo lei diritta a fianco a me, lo sguardo fisso su quel corpicino rigido, inerme, commossa e smarrita più di chiunque altro, come di fronte alla spoglia di un bambino.
“Bisognerà vestirlo, non possiamo lasciarlo così!” le parole tremavano sulle sue labbra e tuttavia sgorgavano limpide e pulite, senza impedimenti.
Vestirlo. Di dignità, di umanità, di un velo di pietà e di amore. Non mi ero mai preoccupata di queste cose. Anzi, a proposito dei funerali mi ero sempre espressa a sfavore di simili “parate”, che ritenevo inutili e vuote. Era tutto diverso, in quel momento, e mi resi immediatamente conto di quanto ciò fosse invece giusto e necessario.
Trascorse qualche ora. Poi lo vestimmo. Mia sorella si occupò degli abiti, io gli infilai le scarpe.

Quando arrivammo nell’appartamento di mio padre, appena fuori dal paese, nelle prime ore del pomeriggio, c’era un sole caldo e invadente, i raggi penetravano di prepotenza dentro casa attraverso le serrande sollevate e i vetri trasparenti, mettendo a fuoco particolari della stanza dove lui aveva dormito fino all’alba del giorno prima: rivedo il lettino ancora disfatto, la vestaglia sulla sedia, sul comodino un quaderno a righe e un bicchiere d’acqua semivuoto.
Subito ci ritrovammo concentrati lì, in quello stesso spazio, io e i miei fratelli. Avevamo un compito preciso: frugammo nell’armadio, quasi furtivamente, cercando un abito adeguato per l’occasione. Il movimento regolare delle dita accompagnava il ticchettio nervoso delle grucce nel guardaroba, scostate e riaccostate ad una ad una. Ebbi la sensazione che passare in rassegna quelle giacche, quei pantaloni (alcuni di taglio antiquato, coperti da cellofan, altri riposti confusamente uno sull’altro), fosse un’intrusione nell’intimo di un uomo che da sempre si era mostrato schivo, e lo era stato fino in fondo, un uomo che bastava a se stesso. Significava scegliere per lui, decidere al suo posto, nell’unica eventualità che egli non aveva fatto in tempo a prevedere, dirigere e pianificare.
Mio fratello tirò fuori un gessato elegante,  poi si diresse verso lo sgabuzzino in cerca delle scarpe.

“Lui sì che è una persona forte, il nostro Marco!” commentò mia sorella con le lacrime agli occhi.
Fu in quel momento che il disagio, improvviso, violento, mi prese alla gola: avvertivo il bisogno di allontanarmi, uscire dalla camera, verso altri ambienti di quella casa che malgrado tutto mi risultava a tratti familiare.
Attraverso il corridoio ombroso fiancheggiato dalle librerie, arrivai nel soggiorno, trovai il balcone, mi precipitai fuori. Di fronte a me, come una visione, lui, inaspettatamente vicino e maestoso: il vulcano. Ritagliato e incollato su quel vasto sfondo azzurro cielo, il contorno scuro del suo profilo si mostrava ai miei occhi increduli, e ammirati.
Esisteva, era dunque reale… Ed era lì, di fronte al balcone di casa!
Rimasi qualche minuto in piedi in contemplazione, e soltanto dopo un po’, avendo di colpo abbassato lo sguardo, mi accorsi della fuliggine sparsa per terra dappertutto, nera, e mi rammentai del lutto.
Rientrando in salotto subito dopo, riconobbi un oggetto in particolare: il cane di ceramica, un elegante collie scozzese a grandezza naturale, seduto sulle zampe posteriori, lucido e bene in vista accanto alla poltrona. Immobile, come sull’attenti, mi fissava con lo stesso sguardo smarrito e assente di quand’ero poco più che bambina. Era comprensibile, stavolta: il padrone gli era appena morto; lo aveva abbandonato.

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